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Missione

«Vado in Turchia per creare ponti tra cristianesimo e islam»

Affascinato da una terra in cui si è sviluppata la Chiesa delle origini, il prete ambrosiano don Attilio Cantoni sarà «fidei donum» in Anatolia. Consapevole di far parte di una esigua minoranza, spiega: «Voglio essere compagno di strada dei pochi cristiani, aperto al dialogo con chi è “altro” rispetto a noi»

di Annamaria BRACCINI

10 Agosto 2023
Don Attilio Cantoni

«Ho chiesto io di andare in Anatolia come fidei donum». A raccontarlo, non senza una certa emozione nella voce, è don Attilio Cantoni, classe 1965, originario dello storico quartiere milanese di Quarto Oggiaro, prete ambrosiano dal 1991. Con lui parliamo della sua prossima partenza per la terra di missione, dove tuttavia ha già trascorso alcuni mesi per imparare la lingua e cercare di comprendere la realtà in cui opererà (come testimoniano molti video del suo canale YouTube).

Perché questa scelta? 
Negli anni scorsi sono stato qualche volta in Turchia perché da quasi un trentennio conosco il padre gesuita Paolo Bizzeti, attuale vicario apostolico in Anatolia, con cui ho fatto degli Esercizi spirituali. Questo è il primo motivo che mi ha avvicinato alla Turchia, anche se ho sempre nutrito interesse per questa terra nella quale si è sviluppata la storia della salvezza, a partire da Abramo. Non dimentichiamo che la Chiesa delle origini, così come la conosciamo, si è consolidata proprio in Turchia, a partire da Antiochia. Mi affascina il fatto che proprio in quella terra generativa della fede i cristiani siano oggi pochissimi. Per esempio a Trabzon (Trebisonda), capoluogo dell’omonima provincia situata sulla costa nord-orientale che si affaccia sul Mar Nero, dove studio la lingua, i cristiani sono 70 su una popolazione di circa un milione di abitanti. È una sfida che sento di dover accettare anche come prete ambrosiano. Le realtà sono ovviamente diverse, ma anche in Lombardia siamo ormai una minoranza, anche se spesso ci comportiamo come se non lo fossimo e non riusciamo a cambiare il nostro modo di essere, cercando di sperimentare strade nuove perché il Vangelo possa parlare ancora agli uomini di oggi.

Con quale spirito parte?
Con il desiderio di capire e non certo di guardare agli altri come se fossero persone da conquistare. Dovrò fare bene i conti con la mia umanità: vorrei incontrare la gente non tanto per convertire qualcuno, ma per creare dei ponti tra il mondo islamico e i cristiani.

Che cosa si aspetta? Una missione nella povertà dei numeri e, magari, anche della predicazione del Vangelo, nel senso che si rivolgerà a un numero limitato di fedeli?
Sì, ma non mi scoraggio. Sono pochi coloro che frequentano la chiesa e, inoltre, bisogna considerare che, nella stragrande maggioranza, si tratta di stranieri e non di nativi turchi perché molti sono i rifugiati cristiani provenienti dall’Iran e dall’Iraq. Vi è poi un folto gruppo di giovani africani che sono in Anatolia per borse di studio. Mi aspetto di essere compagno di strada di questi credenti, di poter con loro camminare alla sequela del Signore, essendo sempre aperto al dialogo con chi è “altro” rispetto a noi. Ritengo che la conoscenza diretta permetta quella pacificazione umana che è sempre possibile quando si supera l’ignoranza che crede di vedere nemici ovunque.

È la sua prima esperienza come fidei donum?
Sì, è la prima e per me arriva a un’età matura, perché ho 58 anni. Finora ho svolto il mio ministero pastorale in diverse zone della Diocesi: a Cremnago, Inverigo, Romano Brianza, Dervio e, ultimamente, a Bruzzano. Penso spesso ad Abramo e Sara che partirono quando erano già avanti negli anni per ascoltare la voce che li chiamava a vita piena. Ovviamente, non mi paragono ad Abramo, ma la sua vicenda illumina ciò che mi appresto a vivere. Mi sento, come è accaduto in tanti momenti difficili o cruciali della mia vita, accompagnato dal Signore e da tanti amici che ho conosciuto nel mio impegno sacerdotale. Credo che accettare quello che il Signore e lo Spirito suggeriscono sia una forma di intelligenza, oltreché di necessaria docilità. Non dico che tutto sia o sarà facile; d’altra parte, nessuna nuova esperienza è senza rischi e incognite, ma devo andare: ne sono convinto più che mai.

In alcune riflessioni postate sui social dimostra entusiasmo e una totale disponibilità a vivere questa esperienza. Tuttavia non si può negare che la Turchia è un Paese obiettivamente non facile per i cristiani. La paura è anche quella di andare in una terra così complessa?  
No, anche se ricordo che proprio a Trebisonda, nel 2006, hanno ucciso don Andrea Santoro e che a Iskenderun è stato assassinato monsignor Luigi Padovese, allora Vicario apostolico per l’Anatolia. Una delle paure più forti, per quanto mi riguarda, è invece non riuscire a imparare la lingua locale, di non riuscire a comunicare, a rendermi disponibile anche solo nell’ascolto. Mi sono dato il termine di un anno e mezzo come massimo per apprendere il turco, perché è il primo e forse unico modo per riuscire a integrarsi. Penso, però, che non sarà facile, anche considerando la mia età.

Lei sarà il secondo fidei donum ambrosiano in Turchia, aggiungendosi a Mariagrazia Zambon, consacrata dell’Ordo Virginum, da tempo impegnata in quella zona del mondo…
Sì, andrò abbastanza vicino a lei anche se, pur essendo inserito nel Vicariato dell’Anatolia, non so ancora di preciso quale sarà il mio incarico. Le distanze in Turchia si valutano spesso in centinaia e centinaia di chilometri e il concetto di vicinanza è assai relativo. Infatti, durante i giorni della visita dell’Arcivescovo, dal 12 al 16 agosto, per esempio, non potrò essere con lui perché Trebisonda dista da Efeso circa 700 chilometri.