Sirio 26-29 marzo 2024
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Mese della pace

Un patto per il dialogo, l’educazione e il lavoro

Nel Messaggio per la Giornata mondiale papa Francesco ha richiamato alla responsabilità, singola e collettiva, di “messaggeri di pace"

di Vincenzo BUONOMO Ordinario di diritto internazionale nella Pontificia Università Lateranense (Agensir)

3 Gennaio 2022
Papa Francesco

Dialogo, educazione, lavoro. Sono le tre prospettive che offre il Messaggio per la 55a Giornata mondiale della pace, consentendoci di intravvedere alcune possibili strade da percorrere per ricercare la pace che è «insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso». Prospettive stringenti ed esigenti che rischiano però di dissolversi in quella retorica della pace se presentate come grandi obiettivi, ma irraggiungibili per l’ampiezza di componenti, di traguardi, di modi di operare assolutamente distanti dalle nostre possibilità o quantomeno difficili da realizzare. E invece nella pedagogia di Francesco, il cammino di pace resta qualcosa che possiamo facilmente percorrere nell’agire, nel pensare, nel valutare situazioni e fattori. Riprendendo la Fratelli tutti il richiamo è sentirsi – come persone e comunità – «artigiani di pace», protagonisti della «architettura della pace».

Il dialogo come metodo

Seguendo l’insegnamento offerto dal Papa anche in questo Messaggio, il dialogo non è soltanto qualcosa che caratterizza la coesistenza umana, ma anzitutto un metodo per operare e concorrere alla realizzazione di grandi azioni come pure di piccole opere. Un metodo che in una progressione estensiva, parte dalla dimensione interpersonale per poi volgersi a quella delle formazioni sociali, degli enti intermedi, dello Stato fino alla grande comunità dei popoli e delle nazioni. Dialogare pertanto è uno dei presupposti della ordinata coesistenza quotidiana, a ogni livello, da non guardare come obiettivo, altrimenti permane il rischio di considerarlo lontano e irraggiungibile.

Ma rispetto alla pace, il dialogo cosa domanda? Azioni, negoziati, soluzioni senza limiti interni o esterni dettati da interessi di parte, il sapersi riconoscere persone che vivono la medesima dinamica sociale, la messa in atto di attività responsabili di fronte alle questioni comuni, il sentirsi parte dell’intera famiglia umana. E questo pur nelle diversità e nelle differenze che spesso spezzano i legami contrapponendo le generazioni attraverso visioni, progettualità e realizzazioni diverse, non di facciata, ma fatte di intenti concreti. Tra le generazioni, infatti, la necessità di dialogare non si pone solo di fronte alle grandi sfide – come da ultimo tanto ha insegnato la pandemia -, ma nella ricerca di progetti condivisi e sostenibili capaci di recuperare le radici e di essere anche generatori di scambi tra generazioni diverse, in vista di un bene più grande, perché comune.

L’oblio dei valori

Educare significa condurre, con saggezza, maestria e umiltà. Condurre verso la pace e non vuol dire semplicemente parlare di pace o istruire sulla pace. Ecco perché il metodo del dialogo è strumento essenziale, non soltanto quale veicolo di immagini, nozioni o elementi, ma soprattutto per dare continuità ai valori propri di ciascuna comunità ed a quelli che sono patrimonio dell’intera umanità senza limitarli. I valori non sono elementi che tramandano tradizioni o luoghi comuni e soprattutto non possono essere sacrificati alla logica del momento o sul traguardo dell’efficienza. L’oblio dei valori spesso frammenta il sapere e riduce la conoscenza al solo rapporto causa ed effetto, escludendo la componente essenziale del dono che è propria di ogni attività educativa. È dal dono che scaturisce la fluidità della relazione tra maestro e discepolo, l’attenzione proporzionalmente più intensa in rapporto ai bisogni, la ricerca delle esigenze essenziali dell’altro, la predisposizione di modelli in grado di incidere secondo i tempi e i luoghi, senza un cliché precostituito, l’impegno a non fare dell’educazione una semplice posta di bilancio.

Il massimo bene

Pensando alla pace, l’educazione consente di rendere operativi nella pratica intenti, teorie e fatti e di passare dalla logica dei piccoli passi, spesso affidata ai singoli e ai piccoli gruppi, a quella realtà più ampia della pace come massimo bene da edificare a vantaggio di tutta la famiglia umana.

Educare significa andare oltre la dimensione che rilega l’apprendimento, la formazione e la stessa specializzazione a meri processi tecnici spesso distaccati dal valore dell’uomo e dal senso di umanità. Significa includere, non sottrarre dai processi educativi quella componente realmente umana e perciò religiosa e spirituale che tanto peso ha nell’animo e nella vita di persone, come pure nello svolgersi dei fatti e degli accadimenti, nei processi culturali e nell’operare delle diverse agenzie educative. Educare impone di destinare risorse perché nessuno sia lasciato ai margini o privato dei contenuti del diritto all’educazione e soprattutto dell’esercizio di tale diritto. Un diritto che riguarda formatori e discenti, generazioni diverse, visioni culturali, religiose differenti, fattori complessi ed elementi basilari.

Fattore indispensabile

Al lavoro, poi, è dato di essere «fattore indispensabile per costruire e preservare la pace». Certo, il lavoro è una caratterizzazione essenziale per la vita dei singoli e per quella delle comunità, uno strumento nel quale le aspettative, le esigenze, i desideri di ogni persona sono chiamati a fondersi con quelli di altri, dando vita ad una dimensione nella quale ognuno è chiamato a esprimere impegno, competenza e sacrificio. Ma le esigenze di oggi domandano non solo un lavoro decente, un giusto salario, un’integrazione nella componente lavorativa e non piuttosto una spersonalizzazione. Al lavoro, infatti, si chiede di non essere più solo un modo per esprimersi, per maturare l’estro ed esercitarlo o per sopravvivere. Il lavoro è fonte di dignità, parola non astratta ma che racchiude in sé le aspirazioni più profonde di ogni essere umano, aspirazioni che rischiano di diventare solo teoriche di fronte alla mancanza di lavoro, all’assenza di sicurezza nel lavoro, allo sfruttamento dei più deboli, alla esclusione dai processi decisionali che riguardano il lavoro.

Nella narrazione, alla questione del lavoro, alle sue patologie, alla sua crisi è stato affiancato il concetto di pace sociale la cui assenza è sinonimo di minaccia all’esistenza di un gruppo o anche di una nazione. La dimensione di crescente interdipendenza – fattore non nuovo, ma ricco di novità nelle sue espressioni attuali – ci porta oggi a mondializzare l’obiettivo della pace sociale, come pure a prevenire la minaccia che su di essa provocano l’innalzamento di barriere, di protezionismi di sorta, di contrapposizioni e di vere e proprie guerre commerciali e finanziarie che pongono il lavoro ai margini anche dei processi economici. E allora se la pace ha bisogno del lavoro, come negare che il lavoro necessita di condizioni di pace?

Il patto

A collegare queste tre prospettive, descrivendole come altrettante condizioni di pace, il Messaggio propone un elemento unificante: il patto. Strumento ben noto nella storia della salvezza, altrettanto importante per la coesione nazionale e per le relazioni internazionali, veicolo di trasmissione e conoscenza di valori, ma che oggi appare privo nel suo reale significato.

Il patto, infatti, implica rispetto e non solo della parola data, ma anche, reciprocamente, tra chi lo conclude. E poi delimita possibilità, descrive componenti e favorisce la collaborazione tra le generazioni pur nella diversità di intenti, generando quella necessaria creatività di fonte alle nuove e sempre più impellenti sfide che interessano la famiglia umana: conflitti, fame, analfabetismo, migrazioni, schiavitù, malattie, crisi ambientali, per citarne alcune. Sfide che domandano di essere governate, non combattute come eterne emergenze, magari per il vantaggio di alcuni.

Ed ecco la proposta di Francesco: un patto del dialogo che costruisce ponti, un patto educativo che definisce la formazione, un patto del lavoro che supera il conflitto sociale. Il tutto affidato alla nostra responsabilità, singola e collettiva, di “messaggeri di pace”.