Preghiera e lavoro sono tra i capisaldi sia della spiritualità benedettina, sia di quella francescana. Nella Regola che Benedetto redige per i suoi monaci troviamo scritto: «L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli in determinate ore devono essere occupati in lavori manuali, in altre nella lettura divina». Francesco sceglie per sé e per i suoi frati il lavoro come mezzo ordinario di sostentamento e afferma: «Voglio che tutti i frati lavorino».
Forse potrebbero bastare questi due esempi per scorgere quanto la vita del cristiano dovrebbe essere cadenzata dalla preghiera e dal lavoro. Il lavoro non è solo fonte di reddito, ma è anzitutto luogo che, al pari della preghiera, contribuisce alla santificazione della persona. Gesù con forza insegna la coerenza tra parola e vita. Nel vivere bene il proprio lavoro si testimonia la fede anche senza pronunciare nessuna parola. Sono i gesti a narrare l’interiorità. La gentilezza al posto dell’arroganza; la capacità di ascoltare al posto della presunzione di chi pensa di sapere tutto; l’autorevolezza al posto dell’imporsi col principio d’autorità; il fare bene la mansione affidata al posto della furbizia di chi cerca sempre di fare il minimo sindacale: sono questi solo piccoli esempi di uno stile evangelico con cui svolgere il lavoro.
Tanti uomini e donne hanno vissuto la loro esistenza lavorando, pregando e accudendo i figli messi al mondo. Una vita segnata dai ritmi del lavoro e della festa, quest’ultima legata prevalentemente al calendario liturgico. Però nel nostro tempo i ritmi sono mutati e non è più così scontato trovare il senso dei giorni in vite cadenzate da lavoro, preghiera e famiglia. Anche il riposo dal lavoro dipende sempre meno dalle feste religiose.
Anzitutto il lavoro è mutato e la sua trasformazione segna la vita di tante persone che si ritrovano a non avere più un’occupazione fissa, ma sono in balìa del precariato e della disoccupazione. La mia impressione è che anche la preghiera stia subendo una metamorfosi e, perso il senso del “precetto festivo”, rischi di mutare in intimismo, con un effetto sociale evidente, ovvero la perdita del valore comunitario del radunarsi a pregare.
La Veglia per il lavoro che ogni anno la Diocesi propone in occasione del Primo Maggio vuole recuperare alcuni elementi fondamentali: il lavoro, la preghiera e il trovarsi insieme a invocare Dio perché ogni persona possa vivere una vita dignitosa attraverso il lavoro.
Lavorare è importante per tutti, non solo per i monaci, i frati e i cristiani. Ogni persona trova nel lavoro un aiuto a vivere su questa terra cogliendone un senso profondo. Solo chi ha sperimentato la mancanza di lavoro e l’incertezza del futuro riesce a comprendere pienamente perché senza un’occupazione rischia di evaporare sapore dei giorni.
Forse pregare insieme per il lavoro non è mai stato attuale come in questo tempo. Non deve stupire il fatto che non se ne comprenda immediatamente il senso. Quest’anno lo faremo nelle sette Zone pastorali e abbiamo scelto, oltre a una chiesa, due aziende, una cooperativa, due scuole dove si forma al lavoro e un luogo significativo come l’area Expo. Anche i luoghi sono importanti, perché per un momento ci si ferma e insieme si prega il Dio di Gesù Cristo.
L’uomo affida a Dio i suoi desideri e lo fa con la fiducia di chi sa che il Padre ascolta la voce dei suoi figli che lo invocano. Pregare è un atto insieme di umiltà e di affidamento. Per chi crede è il primo gesto da compiere appena ci si alza dal letto ed è l’ultima parola che chiude la giornata.
Le Veglie per il lavoro sono profezia nel tempo in cui qualcuno teorizza una società senza lavoro e il senso del ritrovarsi insieme a pregare non è più scontato. Le Veglie sono la profezia di chi caparbiamente continua a credere che senza lavoro la vita è meno vita e per questo s’invoca Dio: che ogni persona abbia un compito da vivere che riempia i suoi giorni di senso.