Percorsi ecclesiali

Proposta pastorale 2023-2024

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Intervista

Petrosino: «Fare il bene non basta, se poi non diventa cultura diffusa»

Il filosofo della Cattolica riflette sul punto di partenza della Proposta pastorale, la deriva individualista che pervade la nostra società, «cosa diversa dall’unicità di ogni persona in quanto creata e chiamata per nome da Dio»

di Annamaria BRACCINI

19 Settembre 2023

«L’Arcivescovo coglie un punto importante: ci sono ambienti, luoghi ed epoche in cui l’individualismo viene in qualche modo contenuto e ve ne sono altre nei quali, invece, viene esaltato. E, dunque, a me sembra particolarmente interessante che monsignor Delpini indichi come la nostra società capitalistica, avanzata e consumistica tenda a esaltare questa dimensione individualistica, a non contenere un rischio che, comunque, è strutturale e sempre presente nell’umano». A sottolineare così l’assunto di partenza della Proposta pastorale dell’Arcivescovo (leggi qui) è Silvano Petrosino, noto filosofo e docente presso l’Università Cattolica.

In Europa è nata l’idea di persona. Tuttavia, in questo individualismo pervasivo vi è uno spostamento del concetto stesso della persona?
Certo, uno spostamento c’è, ed è significativo notare che proprio perché la cultura e la civiltà europee hanno riconosciuto questo valore della persona umana – e, quindi, della sua unicità -, questa stessa società corre più facilmente il rischio di una sorta di deriva. Ma bisogna anche vigilare perché un altro rischio altrettanto pericoloso è quello di un dissolvimento della persona all’interno di un gruppo delle relazioni.

Quali sono le ragioni dello scivolamento verso l’individualismo?
Al centro vi è la questione della società cosiddetta consumistica. Il tema del godimento e dell’accesso al godimento come un diritto assoluto porta a ridurre la persona a consumatore – lo vediamo bene nelle pubblicità – e, quindi, a un soggetto concentrato unicamente su di sé. L’unicità di cui ciascuno vive, perché creato e chiamato per nome da Dio, è tutt’altra cosa: appunto perché siamo unici come figli del Padre, possiamo essere fratelli riconoscendoci vicendevolmente.

I cristiani fanno parte dell’umanità e del presente, vivendo come tutti queste trasformazioni. Chi professa apertamente la fede in Cristo è, comunque, a rischio di questo individualismo autocentrato, magari nel costruirsi una religione fai da te?
I cristiani corrono i rischi di tutti. Cosa fare, allora? A mio avviso dovrebbero avere una visione più ampia dell’abitare umano, nella consapevolezza del fatto indiscutibile dell’incarnazione. Nell’abitare umano c’è il piacere, ma non solo questo. C’è dell’altro, degli altri. Che il Verbo si sia fatto carne e sia venuto ad abitare in mezzo a noi, non è una teoria filosofica, ma è ciò che dà nuovo senso a tutte le cose della vita.

Infatti la Proposta pastorale si intitola Viviamo di una vita ricevuta e le sue due parole-chiave sono responsabilità e testimonianza…
Tutti noi abbiamo ricevuto la vita, ma dobbiamo imparare ad accoglierla, perché esiste una differenza tra ricevere, dove si è passivi, e accogliere che, invece, implica una responsabilità attiva da parte nostra. È evidente cosa significhi questo di fronte alla vita nascente, ma anche alla vita anziana o malata. A Milano, per esempio, si fa tanto bene, ma pare sempre episodico. Non si riflette, non si ritorna su ciò che si fa. In una parola, il bene non diventa cultura diffusa. Credo che l’Arcivescovo intenda questo quando dice che Milano è una città individualista, ma non egoista. Non fermarsi mai a riflettere sul bene, sul volersi bene, sul fare il bene, alla fine, porta ad affidarsi solo agli slanci personali, ai comportamenti virtuosi di qualcuno, ma non crea comunità e una cultura che edifica una società migliore.

Vivere una prospettiva unitaria all’interno di noi stessi e relazionale con gli altri, implica la vita come vocazione che è, appunto, quell’antidoto all’individualismo che l’Arcivescovo evidenzia?
La vocazione è il concetto fondamentale, perché riguarda una chiamata alla quale bisogna rispondere. Per esempio, una vocazione chiarissima è quella del talento ricevuto. Avere un talento è un dono, ma questo rappresenta solo un terzo della questione. Perché poi, bisogna riconoscerlo, c’è bisogno di disciplina, di studio, di serietà e motivazione. Bisogna crederci e rispondere. Così come accogliere non è semplicemente ricevere, rispondere non è semplicemente reagire. Tutto questo significa coltivare la responsabilità personale nel contesto più ampio dell’abitare l’umano e la società.