«Si percepiva un’accoglienza, un affetto da parte dei fedeli che hanno sentito subito in lui la presenza di un padre, riconoscendo un dono che viene dall’alto attraverso il suo sì e la sua umanità». A descrivere con queste parole il “clima” respirato in piazza San Pietro nel giorno della Messa di inizio del ministero petrino di papa Leone XIV è monsignor Flavio Pace, arcivescovo e segretario del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Vi era anche una nutrita delegazione ecumenica che lei, al termine della celebrazione, ha presentato al Papa…
Sì. Una delegazione, appunto, di altissimo livello, non solo per quanto riguarda le persone che la componevano. C’era il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, sua Santità Bartolomeo, il Patriarca di Gerusalemme greco-ortodosso, il Patriarca della Chiesa assira dell’Est. Non sono mancate altre Chiese ortodosse, tutte con rappresentanze di alto profilo. Anche per quanto riguarda l’Occidente vi erano moltissimi leaders: il Consiglio mondiale delle Chiese, la Comunione anglicana, l’Arcivescovo di Utrecht vetero-cattolico, la Federazione luterana mondiale, i Pentecostali, i Quaccheri, i Discepoli di Cristo, solo per citare qualcuno. Non vi è stata nessuna denominazione che si sia chiamata fuori da questo invito e da questo gesto di accoglienza e di partecipazione.
Questo indica che il cammino ecumenico, nonostante tante difficoltà, prosegue con forza?
Per organizzare questo evento abbiamo dovuto scorrere gli archivi del 2013 e 2005 – gli anni in cui hanno iniziato il loro ministero petrino rispettivamente Francesco e Benedetto XVI – e anche quelli di periodi precedenti per capire protocolli e prassi. Devo dire che una presenza c’è sempre stata, però credo che più è cresciuto il cammino ecumenico dal Concilio ecumenico Vaticano II a oggi, più questa presenza delle Chiese sorelle non è stata soltanto questione di cortesia istituzionale, ma la testimonianza di un crescente vissuto di comunione e di fraternità. Particolarmente significativa è stata, in questa ottica, anche l’ultima Assemblea generale sinodale, a cui hanno partecipato 16 delegati delle Comunioni cristiane mondiali, potendo esprimere il loro parere e sentendosi, per così dire, a casa. Tale “ponte” l’ha percepito bene anche papa Leone, ribadendo, nei suoi primi messaggi, l’impegno a continuare in un cammino sinodale di Chiesa. Anche nel suo motto – In Illo uno unum – sentiamo forte questo richiamo all’unità e alla comunione.

La pace su cui ha insistito il Papa, pace disarmata e disarmante che non è solo l’assenza della guerra, può avvalersi del cammino ecumenico?
Come spiega il decreto conciliare sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, il protagonista del cammino ecumenico è lo Spirito Santo, per cui esiste un perfetto allineamento tra quello che è il dono pasquale di Cristo, con l’offerta della sua vita, e il dono dello Spirito che suscita la Chiesa. Purtroppo le vicende umane hanno frammentato questo dono con divisioni tra le diverse confessioni, ma anche con la violenza, i ripiegamenti su se stessi, la separazione tra i popoli. Il richiamo al dono di Cristo ci dice che l’unità è possibile non perché la costruiamo noi con accordi e diplomazie, che pure sono necessarie, ma perché siamo cristiani. Il Papa dal balcone delle benedizioni ha detto: «Noi stringiamo la mano a Cristo e per questo stringiamo la mano dei fratelli», esplicitando un fondamento cristologico, che non toglie nulla dell’umano, ma lo compie.
È anche molto significativo che, all’indomani del 18 maggio, il Santo Padre abbia ricevuto in udienza il Patriarca ecumenico Bartolomeo. Un incontro da cui è emersa la possibilità di un primo viaggio apostolico a Nicea…
Ovviamente è stato ribadito l’invito fatto a papa Francesco, che aveva confermato il suo desiderio di andare a Nicea, anche se la decisione non era mai stata ufficializzata. Papa Leone ha espresso il desiderio di mantenere questa promessa, che è diventata anche una sua promessa. D’altra parte, è tradizione che, nei primi anni di pontificato, si realizzi un viaggio apostolico in Turchia in occasione della festa di Sant’Andrea. In generale, vi è sempre un reciproco scambio di auguri per le feste dei Santi Pietro e Paolo e quella di Sant’Andrea che gli ortodossi chiamano «le feste del Trono patriarcale».
Pensa che il Papato possa svolgere un ruolo di mediazione a livello delle guerre in atto in Europa e Medio Oriente?
Nella storia, anche recente, sappiamo che la Santa Sede è stata mediatrice di accordi, alcuni più conosciuti, altri meno. Se pensiamo a Piazza San Pietro, alla stessa architettura, dobbiamo ritornare al suo significato profondo: dal martirio di Pietro si allargano due braccia che vogliono stringere non per soffocare, ma per poter accogliere tutti senza schieramenti. La Santa Sede può essere uno strumento di mediazione riconosciuto per il numero di relazioni internazionali e di rappresentanze diplomatiche su cui può contare e per il fatto che si colloca al servizio dell’uomo, della vita dei popoli, della libertà religiosa e della pace: di quei valori umani universali che essa vive a partire dall’incontro con Cristo. Penso che occasioni come i funerali di papa Francesco, dove abbiamo visto anche che alcuni leaders si sono finalmente parlati, siano segni che questa ipotesi è percorribile e credibile. Noi, come Chiesa di Milano, dobbiamo sottolineare che non ci sarebbe un Papa agostiniano senza Ambrogio e dovremmo tornare a pregare per papa Leone con ciò che la liturgia ambrosiana fa pregare nell’orazione, all’inizio dell’Assemblea liturgica, nel giorno della festa liturgica di Sant’Agostino: «Dona la costante protezione di tanto maestro di fede alla nostra Chiesa sempre memore e felice di averlo generato alla vita di grazia». L’incontro con Ambrogio ha cambiato Agostino. La nostra Chiesa sia una testimonianza viva di incontro con Cristo, che può cambiare il percorso di vita di tante persone dal buio alla luce.