La cura di eccellenza e la malattia, la dimensione spirituale e la speranza, la responsabilità che viene dagli strabilianti progressi scientifici e tecnologici nella medicina che non possono far mai dimenticare l’umano. È stata una riflessione ampia e approfondita quella che ha visto protagonista l’Arcivescovo in visita all’Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio, Irccs del Gruppo San Donato. Il numero 1 nella top 20 degli ospedali in Italia secondo una classifica de Il Sole24Ore.

L’incontro
Aperto dall’intervento di monsignor Luca Bressan, vicario episcopale di Settore, l’incontro – dal titolo «E so che posso sempre contare su di te. La speranza nella cura del malato» – ha preso avvio da alcune parole di papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, citate dallo stesso Bressan: «Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera».
Da qui il dialogo intorno al tema di come «custodire il tesoro della relazione umana, del rapporto personale, senza il quale anche la migliore tecnologia può combattere la malattia, ma non riuscire a guarire il malato». Senza dimenticare il fattore fondamentale «della presenza religiosa negli ospedali e di come ridisegnarla, per conservarne il ruolo, nel quadro di forte trasformazione che sta conoscendo il mondo della cura, ma anche quello religioso».
A confrontarsi con monsignor Delpini – alla presenza dei vertici dell’Ospedale, di molti medici e infermieri, del responsabile del Servizio per la Pastorale della Salute don Paolo Fontana e del cappellano don Mario Fumagalli -, Giuseppe Banfi, direttore scientifico dell’Irccs e scientific ambassador di Mind, Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Irccs, e Umberto Alfieri Montrasio, responsabile dell’Unità operativa del Piede e della Caviglia del nosocomio, un’eccellenza nel campo dell’ortopedia e della traumatologia. Tutti attenti a sottolineare l’apporto cruciale della dimensione umana.
«Un’organizzazione della cura che pensa solo alle prestazioni è disumanizzante, anche per chi è operatore – ha sottolineato infatti Pregliasco -. Il Giubileo ci invita a sperare, non con un’attesa passiva, ma con una sanità che cura, accoglie, guarisce e, qualche volta, può solo consolare. Così avremo onorato la nostra missione come medici, operatori, sanitari, ma soprattutto come persone».
«Una sofferenza senza speranza è un fallimento per tutti: al successo tecnologico e degli esperimenti scientifici bisogna affiancare una classe dirigente partecipe, attiva, disponibile. Il nostro compito è curare, riuscire a guarire, ma sempre consolare», ha aggiunto Montrasio.

L’intervento dell’Arcivescovo
«Io entro in ospedale sempre con molto rispetto e tanti segnali mi dicono della qualità del lavoro che qui si compie con competenza e dedizione davvero apprezzabili. Penso ai malati che sono i destinatari di tutta questa scienza dedicata. Vorrei dire la mia ammirazione per quello che fate, perché questo prendersi cura della carne, toccando il malato, è qualcosa di sacro», ha subito osservato l’Arcivescovo. «Per dire la mia ammirazione ho scritto la lettera a tutti gli operatori sanitari, Dovrebbero farle un monumento», ha detto ricordando il testo del 2021 (leggi qui), mentre nel 2019 era stata pubblicata l’altra sua lettera Stimato e caro dottore (leggi qui).

«Io non riesco ad accontentarmi di una speranza che sia solo fiducia e di una definizione della speranza che si riduce ad aspettativa, a un certo volontarismo, mentre dovremmo chiederci che fondamento abbia la speranza stessa. Sono convinto che una necessaria definizione di speranza sia relativa a una promessa e non sia solo il frutto di un impegno a essere fiduciosi anche nella tribolazione – ha proseguito monsignor Delpini -. La vita è vocazione perché è una risposta a una promessa che rende desiderabile vivere. Il cristianesimo dice che non si tratta solo di avere temperamenti fiduciosi o supporti psicologici, ma di fidarsi di Dio con una speranza che ha come componente irrinunciabile anche la responsabilità».
Responsabilità personale, umana, professionale, collettiva «nel far fruttare le doti ricevute, perché quello che abbiamo non è unicamente il risultato di quello che siamo, che abbiamo fatto e studiato, ma è nell’essere stati chiamati da una vocazione: la promessa che, anche nella malattia, possiamo fare del bene e si può amare».
Per questo la malattia può essere un dono, anche se non in se stessa, suggerisce l’Arcivescovo: «I malati ci possono insegnare, infatti, a essere sani e, dunque, anche la malattia può essere un esercizio spirituale. Si può sempre vivere quel sorriso, quell’interessamento, che vanno oltre la cura e che rendono migliori anche noi. D’altre parte, è stato dimostrato che una dimensione della spiritualità della cura, una maggiore speranza, rendono più efficace la cura, perche c’è il desiderio di un futuro, di una speranza ci è stata promessa».

È in una tale prospettiva «inclusiva e interessante», che si situa anche la riflessione «sull’inserimento del cappellano e della spiritualità nella terapia clinica». E tutto questo con quell’inquietudine – conclude l’Arcivescovo – che permette di non dimenticare il mondo e le sue miserie. «Noi abbiamo raggiunto livelli di cura, competenza, tecnologia prestigiosi, ma non riesco a far pace con l’idea che siamo, comunque, dei privilegiati. Come è possibile che uomini e donne come noi, per esempio in Africa, non abbiano neppure un’aspirina, qualcosa per combattere la malaria o un disinfettante? Il vostro Gruppo conta molte realtà ospedaliere con una proiezione anche internazionale: vi invito a una solidarietà mondiale».

A conclusione è lo stesso Arcivescovo a consegnare la sua lettera agli operatori sanitari e a visitare alcuni reparti al 9° piano della modernissima struttura che domina l’area già di Expo e ora aperta a Mind.




