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Approfondimento

La passione di Paolo VI per un dialogo diretto con i giovani

Tutto il ministero del nuovo Santo - dagli anni della Fuci a quelli dell'episcopato ambrosiano, fino al magistero come Pontefice, quando sostanzialmente “ideò” la GmG - sono ricchi di pronunciamenti, gesti e attenzioni che denotano il suo rapporto preferenziale con le nuove generazioni

di Annamaria BRACCINI

12 Ottobre 2018

La Chiesa che insegna ed educa alla fede con coraggio, guardando al futuro con speranza. La visione ecclesiale e pastorale di Giovanni Battista Montini – che domenica 14 ottobre diviene Santo dopo aver percorso, come Pontefice, le vie dei cinque continenti, e prima, come Arcivescovo di Milano, le strade della metropoli inquieta – non poteva che definire anche il rapporto preferenziale che coltivò sempre con i giovani.

Declinazione, questa, e peculiarità evidente fin dagli anni del giovane don Montini, assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Entusiasta e carismatico, lontanissimo dal cliché ideologico di un uomo ripiegato su se stesso e triste, egli seppe vedere con lungimiranza quella Chiesa “giovane” che oggi trova singolari risonanze nel pontificato di papa Francesco, che infatti lo considera tra i suoi maestri. È in questo periodo, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, che si radica la passione per un dialogo diretto con «le generazioni che costruiscono il futuro», come emerge dalla corrispondenza privata montiniana e da tanti interventi e scritti pubblici. Quando andava formandosi una generazione che si sarebbe opposta al nazifascismo, divenendo nel dopoguerra il ramo solido della democrazia – un nome per tutti, Aldo Moro -, Montini maturò quelli che sono stati chiamati i suoi «canoni pedagogici di prim’ordine»: da un lato, la cura per un confronto mai didascalico o impersonale; dall’altro, la volontà di far nascere e germogliare nell’animo «promettente» dei più giovani una fede praticata per convinzione e non per convenzione. È la «pedagogia della coscienza cristiana» che si potrebbe sintetizzare in queste parole rivolte nel 1955, nel suo primo anno di episcopato ambrosiano, agli assistenti ecclesiastici della Giac, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica. Se secondo Montini allora era abbastanza facile educare alla fede, molto più difficile era far sì «che questa religione non sia soltanto una osservanza, ma abbia un carattere personale, che sgorghi dal cuore, che impegni l’emotività del ragazzo, che faccia già da perno ai suoi nascenti pensieri, che lo impressioni come un affare davvero molto importante».

Anche in tale contesto, «la palestra pastorale» rappresentata da Milano e dalla Diocesi si rivelò strada preziosa per il futuro Paolo VI e cammino tracciato per gli Arcivescovi che si sarebbero succeduti poi sulla Cattedra di Ambrogio e Carlo: dal cardinale Giovanni Colombo a Martini, dai cardinali Tettamanzi e Scola a monsignor Delpini. Indimenticabili le immagini delle migliaia di giovani riuniti in Duomo, seduti ovunque – anche nei confessionali – per la Scuola della Parola di Martini o gli incontri promossi dall’Azione Cattolica alla sua presenza che, fin nel titolo, coniugavano la città in cui si svolgeva l’iniziativa e la parola “giovani”. La Pastorale giovanile, aperta a tutti e a tutti attenta, assumeva così un carattere esplicitamente vocazionale, collocandosi in una proposta di crescita armonica della persona, qualunque fosse la sua scelta esistenziale. È alla domanda profonda di senso che occorre dare risposta: su questo Montini, salito al soglio di Pietro, ebbe una posizione chiara. Anche nel tribolato momento del 1968, la sua fiducia non venne meno.

Basti pensare alle omelie della Domenica delle Palme, divenute negli anni riflessioni specificamente dedicate ai giovani, fino alla grande riunione dei 16 mila, giunti in piazza San Pietro il 23 marzo 1975 per l’Anno Santo, considerato da molti come un prodromo delle Giornate mondiali della Gioventù. Intensa e, ancora una volta, profetica, quella del 1972, quando già si intravvedevano le derive della stagione di violenza degli “anni di piombo”, pur non mancando segni di speranza. «A noi – dice Paolo VI – sembra di poter scorgere qualche cosa di profondamente interessante in cotesta inquietudine, la sincerità cioè dei vostri animi, che non temono di denunciare il vuoto che la vita moderna non solo lascia, ma scava dentro di voi. Sentite la sofferenza della fatuità a cui vi ha indirizzato una concezione scettica ed edonistica della vita, della quale le generazioni precedenti sono state, in non lieve misura, stolte maestre».

E tornano allora alla mente due episodi che dicono molto in questo senso: la volontà di rivolgersi ai giovani al termine del Concilio, con l’invito a «costruire nell’entusiasmo, un mondo migliore di quello attuale» (brano ripreso nel magnifico discorso di papa Francesco per l’inizio del Sinodo sui giovani) e un appunto scritto a mano, ritrovato tra alcuni fogli privati del Pontefice. Nel momento forse più tragico della sua vita, dopo le esequie dell’amico Aldo Moro, interrogandosi sul domani della società, vergò questa semplice frase: «Occorre una gioventù nuova».