
«L’IA sta profondamente cambiando la nostra società: più di tutto sta ridefinendo i parametri di cosa significhi essere umano oggi». Potrebbe essere questa la cifra sintetica dell’intera Giornata di Studi che la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale ha dedicato al «tema rischioso e inevitabile» di «Ripensare l’umano nell’era delle tecnologie digitali». Così come lo ha definito il preside dell’Ateneo, don Angelo Maffeis che ha aperto i lavori del convegno annuale nel quale si sono alternati docenti ed esperti.
Il tema inevitabile
«È inevitabile domandarsi se, indipendentemente dalle distinzioni e dalle cautele che puntigliosamente ci impegniamo a introdurre, lo sviluppo tecnologico non abbia già superato di fatto, nella cultura diffusa, molti concetti antropologici tradizionali e se non stia plasmando la nostra identità, mutando profondamente la nostra percezione e il nostro modo di vivere nello spazio e del tempo», ha, infatti, detto Maffeis, aggiungendo: «Un aspetto che sorprende, soprattutto chi si dedica alla ricerca storica nel campo della teologia, ma anche negli altri campi del sapere, è il prodigioso arricchimento della memoria del passato alla quale i nuovi strumenti oggi disponibili danno accesso». Basti pensare a come tutto questo «incida sui processi di tradizione che sono vitali per la Chiesa».
Insomma, un problema che è «come un prisma a tante facce», sul quale si sono soffermate le prime due approfondite relazioni del convegno, moderato da Giuseppe Noberasco, docente di Teologia Sistematica della Ftis.
«Abbiamo bisogno di filosofi»
A partire da Viola Schiaffonati, professore associato di Logica e Filosofia della Scienza presso al Politecnico, che ha evidenziato, nella sua comunicazione dal titolo «Perché abbiamo bisogno della filosofia in un’epoca dominata dalla IA», come «occorra smettere di guardare all’IA esclusivamente quale tema tecnico, considerandola invece in una prospettiva più ampia, quella della filosofia, se vogliamo costruire un futuro in cui il grande potere dell’IA sia davvero a beneficio dell’umanità e condiviso da tutti».
Da qui la necessità di «mettere in luce alcune peculiarità di queste tecnologie e di allargare lo sguardo per includere, non solo l’etica, ma la filosofia più in generale: infatti, cercare di esaurire la domanda relativa a cosa l’IA ha di peculiare, è un compito ambizioso. Per questa impresa abbiamo bisogno di filosofi in grado di valutare le questioni morali ed etiche che questa ridefinizione comporta. Abbiamo bisogno anche di scienziati, di ingegneri, di informatici che siano in grado di apprezzare le discipline umanistiche – la filosofia nel caso in questione – perché saranno proprio queste ultime a essere meglio preparate a evadere le trappole del potere tecnocratico e dei problemi politici scambiati per problemi tecnici», ha concluso la docente, lanciando una sorta di appello.
«Il contributo della filosofia in questo contesto è proprio quello di mostrare che non è sufficiente progettare sistemi di IA con l’intenzione di evitare conseguenze negative e promuovere effetti positivi, ma che è possibile farlo solo allargando lo sguardo, ampliando l’orizzonte e avendo sempre ben chiaro che i problemi etici, sociali, politici non possono essere risolti solo da soluzioni tecniche».
Insomma, c’è bisogno di un nuovo paradigma per «L’umano alla prova della ragione digitale», secondo il titolo della relazione di Oreste Aime, docente di Filosofia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale nella sede di Torino. Paradigma che ha «una «prima mossa». Ossia, «partire dall’intelligenza umana nella sua definizione più ampia per comprendere quella artificiale, e non viceversa. Sembra ovvio, ma non lo è e lo sarà sempre di meno. L’IA non è in grado di cogliere la singolarità del vivente e dell’essere umano come persona e ci sarà sempre una sproporzione tra il dato quantitativo e quello qualitativo e relazionale. È indispensabile la salvaguardia dell’esperienza in tutta la sua ampiezza e profondità».
Anche perché, per le mutazioni del nostro humanum, la rivoluzione informatica è «certamente uno dei fattori più importanti e trainanti, ma non l’unico», essendo, quindi, necessario «abbandonare una lettura solo strumentale della tecnologia».