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Milano

«Il segno che questo tempo ci chiede è una più intensa unità nella nostra Chiesa»

Presiedendo la Celebrazione dei Vesperi primi nella Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, l’Arcivescovo ha compiuto il “Rito della Nivola” portando sull’altare maggiore del Duomo la preziosa reliquia del Santo Chiodo

di Annamaria Braccini

11 Settembre 2021

Un invito che si fa appello sentito, forte, scandito su quell’espressione, più volte ripetuta, “Non stracciamola” che pronunciano coloro che si dividono le vesti di Gesù ai piedi della croce. Non stracciamo, non dividiamo ciò che, unito, rivela tutta la sua preziosità, incrinata e oscurata da chi vuole farne brandelli, appunto stracci.

Come ogni anno, nei tre giorni più vicini alla Festa liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce che ricorre il 14 settembre, il Santo chiodo torna, nei Vesperi primi del Triduo dell’Esaltazione, aperti dal Rito della luce, sull’altare maggiore del Duomo per la venerazione dei fedeli.

Il Santo chiodo, la reliquia più preziosa della nostra Chiesa, simbolo della Passione attraverso la concretezza del chiodo della croce di Cristo, la cui presenza è attestata fin dal 1263 nella Basilica di Santa Tecla e, in Duomo, dal 1461; reliquia particolarmente cara a san Carlo, come a tutti i suoi successori, che, appunto, stretta tra le mani dall’Arcivescovo, “scende” dalla sua consueta collocazione, posta a 42 metri di altezza sulla sommità della volta absidale, dove è segnalata da una luce rossa e dove verrà riposta lunedì, al termine del Triduo, nella “Messa Capitolare infra Vesperas”.

Momenti – questi – tra i più particolari e suggestivi dell’intero anno liturgico, anche per il mezzo con il quale l’Arcivescovo raggiunge il Santo chiodo, ridiscendendo con la reliquia inserita nella croce in legno dorato: la Nivola. Quella sorta di ascensore a forma di nuvola – “nivola”, appunto, in dialetto -, che qualcuno (specie nei secoli scorsi) attribuiva a Leonardo da Vinci, ma che, con molta più ragione, si deve ritenere dovuta ad architetti dell’entourage di San Carlo. Nivola – arricchita dalle pitture su tele di Paolo Camillo Landriani risalente, nella sua forma attuale, al 1624 e oggi azionata da un duplice argano meccanico, ma un tempo mossa a forza di braccia – che ascende dalla Cappella feriale della Cattedrale dove trovano posto il cardinale Lorenzo Baldisseri, presente in Diocesi per motivi legati al suo Ministero e, come tradizione, i Canonici del Capitolo metropolitano con l’Arciprete, monsignor Gianantonio Borgonovo. Ed è, appunto, mentre l’antico marchingegno sale verso il Santo chiodo che vengono proclamati brani dei Vangeli della Passione, con quel “non straccaimola”, [la tunica di Gesù], cui fa riferimento il vescovo Mario nella sua omelia.

«Il buon senso suggerisce di non dividere quello che ha un valore se è mantenuto nel suo insieme. Le divisioni si possono leggere come una mancanza di buon senso. Ci sono passioni che oscurano il buon senso, ma le ferite che provocano sono insanabili: una famiglia è stracciata, in una comunità si creano contrapposizioni croniche, nella Chiesa gli scismi hanno separato fratelli e sorelle e rimangono uno scandalo che compromette la missione», sottolinea l’Arcivescovo, che aggiunge: «“Non stracciamola” suona come una esortazione straziante per invocare un ripensamento, chiamare a una conversione, come un gemito dei santi, come la voce supplice di Maria che vuole commuovere i suoi figli che vede divisi e determinati a farsi del male, a contrapporsi, a far valere il proprio particolare punto di vista; suona come la voce del fratello che vuole correggere il fratello. Deponiamo l’animosità, mettiamoci a servizio dell’unità della Chiesa, della riconciliazione nella nostra comunità. Se ci sono stati malintesi, cerchiamo di chiarirci, non di farne un motivo per separarci. Se riteniamo di avere la missione di custodire e promuovere valori che nella comunità non sono riconosciuti, costruiamo con pazienza e benevolenza, con lungimiranza, non prendiamone pretesto per costruire un’altra comunità, una comunità separata».

Il pensiero è a Chi, per amore, ha dato la vita sulla croce di cui il Santo chiodo è simbolo. «Convocati dal dono dello Spirito, restituiti al buon senso dal silenzio che contempla il crocifisso, toccati in profondità dal grido straziante dei santi e di Maria, forse finalmente, possiamo lasciarsi convertite dall’amore giunto al compimento». Per questo «i giorni che possiamo dedicare in Duomo alla contemplazione del segno del crocifisso siano anche per la nostra Chiesa diocesana il tempo di quel silenzio, l’invito a quello sguardo che si rivolge a Colui che hanno trafitto. Accogliamo lo Spirito che ci raduna per essere una Chiesa unita, per trovare le vie per radunate tutti i figli di Dio che si sono dispersi. Una più intensa unità nella nostra Chiesa è il segno che questo tempo ci chiede perché il mondo creda. Non stacciamola, questa Chiesa, l’unica, la sposa dell’Agnello».

La benedizione dall’altare maggiore con la croce, esposta alla venerazione pubblica nel Triduo, conclude la celebrazione, nella quale, per la prima volta dopo più di un anno e mezzo (a causa delle restrizioni per la pandemia) tornano a cantare i Pueri Cantores della Schola Cantorum della Cattedrale.

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