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Intervista

«Il male della pandemia si combatte insieme»

Tra i relatori del convegno in programma il 16 giugno a Villa Cagnola, il filosofo Adriano Fabris spiega: «Per mesi vicinanza e prossimità sono state percepite come pericolose. Ora bisogna recuperare il senso delle relazioni»

di Annamaria Braccini

30 Maggio 2021
Adriano Fabris

Un convegno importante che tratterà temi di sempre, ma che hanno assunto un significato del tutto particolare con ciò che abbiamo vissuto. Infatti il 16 giugno, Villa Cagnola a Gazzada ospiterà un dialogo a più voci qualificate, dal titolo «Credere nel tempo della pandemia. Quale libertà religiosa oggi e domani?». Tra i relatori, Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all’Università di Pisa e presso la Facoltà Teologica di Lugano, approfondirà la «Metamorfosi delle relazioni durante e dopo la pandemia». A lui abbiamo chiesto cosa cambia, è cambiato e cambierà: «Sicuramente la pandemia ha lasciato e lascerà un segno. Non possiamo dire che si ricomincia tutto come se non fosse accaduto nulla. Credo che sia cambiato, anzitutto, il modo con cui viviamo le relazioni che, principalmente per noi popoli mediterranei, si basano sulla vicinanza, sulla prossimità, mentre ora il prossimo è percepito come pericoloso, come contagioso, per cui è un valore tenere le distanze. Da un punto di vista morale, c’è una sorta di rovesciamento; da un punto di vista religioso, il comandamento “Ama il prossimo tuo” si trasforma in “Ama il prossimo tuo tenendolo a distanza, non avvicinandoti a lui o facendoti prossimo”».

Anche il rapporto con la nostra corporeità è diventato diverso?
Sì. Il corpo è stato compresso – concentrato dentro gli spazi del lockdown, per esempio -, ma è stato in qualche modo addirittura depresso, nella misura in cui abbiamo ritenuto che potevano essere sostituite le relazioni in presenza con quelle a distanza. Questo non è vero: infatti, abbiamo sentito la mancanza delle relazioni in presenza e appunto per questo, non appena si è aperto uno spiraglio, ci siamo precipitati “fuori”, con tutti i rischi del caso. D’altra parte, per noi cristiani il tema del corpo è cruciale. Non è possibile che una Messa trasmessa in televisione o online abbia lo stesso potere di coinvolgimento di ciò che si sperimenta di persona. Tutto questo ha a che fare anche con il corpo del Signore: basti pensare alla stessa possibilità di fare la Comunione, che ci è mancata molto.  

Che la libertà sia percepita oggi come possibilità di andare a bere un aperitivo o meno e non come non possibilità di una promozione umana profonda, cosa significa per la fede?
Possiamo dire che abbiamo sperimentato quanto poco profondamente viviamo e sentiamo il nostro essere liberi: ecco perché la maggior celebrazione del nostro essere liberi pare essere poter andare al ristorante e su questo si fanno battaglie. Il problema vero che, non a caso, interessa le religioni, è sperimentare la libertà nel senso di quella verità che ci renderà liberi, del dialogo interreligioso, a partire dai testi di papa Francesco e dall’Enciclica Fratelli tutti. Un dialogo che si svolge, appunto, con l’espressione del proprio essere religioso, cioè nell’essere in relazione con Dio e con gli altri, quindi anche con persone che professano altre fedi. Questo è possibile, come indica il Santo Padre, combattendo insieme il male e la violenza in tutte le sue forme. Penso che qui stia la radice, che emerge dall’esperienza del Covid, per un pensiero, una teologia, una filosofia che siano autenticamente religiosi. Occorre capire che il male della pandemia si può combattere insieme, non soltanto agendo doverosamente uniti nella vicinanza alle persone malate, ma cercando di comprenderne il senso profondo e ponendosi, quindi, insieme sulla strada della salvezza.

 

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