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Milano

«Guardare al termine della vita, con speranza e fiducia, sapendo che vi è una semina di risurrezione»

Nella II edizione della Giornata Nazionale del Fine Vita, il Convegno di Studi promosso dalle Sezioni lombarde di Fadoi e di Animo, ha visto la Lectio Magistralis, dell’Arcivescovo. Titolo, “La vita finisce?”

di Annamaria Braccini

6 Aprile 2019

In un tempo in cui la fine della vita ha cambiato persino il nome, diventando il fine vita, e in una cultura contemporanea che nega la morte, credendo più nell’onnipotenza dell’uomo che in quella di Dio, interrogarsi su questi temi si fa sempre più urgente.

Per questo, perché il fine vita «è diventata una nuova terra di nessuno», nella II edizione della Giornata Nazionale del Fine Vita, le Sezioni lombarde di Fadoi (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti) e di Animo (Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera) promuovono un Convegno di Studi, affidando la Lectio Magistralis, dal titolo “La vita finisce?”, all’Arcivescovo. Una comunicazione, la sua, non dedicata a temi specifici di bioetica, ma alla complessiva visione cristiana della questione. «Si vorrebbe condividere qualche cosa di quello che Dio vuole a proposito della vita dei suoi figli, essendo la vita sempre un principio di relazione, anzitutto di relazione amorevole con Dio stesso. Secondo la rivelazione cristiana, la vita non ha, infatti, una definizione scientifica, non è un fenomeno biologico, ma una dinamica relazionale».

Così, il modo di intendere l’esistenza umana – che «ne esprime la dignità e il valore e che sottrae all’uomo il diritto di deciderne l’inizio e la fine» – non vede nel termine della vita fisica la fine di tutto, ma un passaggio necessario verso la risurrezione, pur non escludendo, come è ovvio, l’esperienza del dolore e della morte. È in tale prospettiva che il cristiano guarda con serenità e speranza alla vita e alla morte. Passaggio, questo, certamente complesso, tra «i meno plausibili, sia nella cultura contemporanea che nei tempi antichi», ma che è l’unico modo «per salvarci dalla disperazione».

I passaggi della riflessione dell’Arcivescovo

Da qui, il vescovo Mario propone alcuni ulteriori passi di riflessione e da approfondire. «Dio non vuole la morte e, quindi,la morte medesima è un nemico da combattere, non una volontà divina da subire».

Come dice il Libro della Sapienza, «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli, infatti, ha creato tutte le cose perché esistano». Nasce, allora, la domanda delle domande: quella della precarietà della vita terrena che espone «al soffrire, in una drammaticità di esperienze che coinvolgono tutta la persona nella sua dimensione corporea, psicologica, spirituale. Il credente si domanda come si possa comporre la certezza dell’amore di Dio con l’esperienza del soffrire». Due le risposte, entrambe simili a una bestemmia: «Per alcuni, il soffrire innocente è diventato una obiezione all’esistenza di Dio, alla sua bontà e onnipotenza, un argomento per escludere l’esistenza di Dio; per altri è stato interpretato come un aspetto della volontà di Dio, quasi un elemento di un progetto provvidenziale».

Il riferimento esemplare non può che essere a Gesù e alla sua compassione di fronte ai malati. «San Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive “che tutto concorre al bene, per coloro che amano Dio”. Tutto, sia la salute che la malattia, sia la vita che la morte. Ciò non significa che ogni cosa sia bene – il soffrire non lo è -. ma che, in ogni situazione, si può trovare occasione per vivere da figli di Dio». Appunto, come ha fatto il Cristo «che non è stato preservato dal soffrire, ma è rimasto figlio di Dio Così si rende possibile il bene anche nella prova, la capacità di vivere, amando, perdonando ed essendo principio di riconciliazione».

È, dunque, la semplice coerenza con l’insegnamento del Signore, a definire come un dovere «la cura dei malati, il sollievo offerto, la prossimità, l’inserimento in una comunità, che esprima sollecitudine e compassione specialmente per chi è nella condizione di soffrire», perché, come dicono le Scritture, “non è bene che l’uomo sia solo”.

Dovere che riguarda, in primis, chi esercita la professione medica e coloro che si prendono cura del fine vita, con i quali l’Arcivescovo, parla di alleanza, «nella consapevolezza che sono molti i problemi che devono essere affrontati, sia per gli aspetti scientifici, sia per il contesto sociale e culturale, sia per la normativa legislativa vigente». Complessità a fronte delle quali la Chiesa Italiana, con la Commissione Episcopale per il Servizio della Carità e la Salute della CEI, intende offrire un orientamento attraverso la Nota, intitolata “Alla sera della vita. Riflessioni pastorali sulla fase terminale della vita terrena”, che sarà disponibile tra circa un mese.

Il Decalogo degli Internisti Ospedalieri

Chiaro che gli Internisti siano, tra i medici, ancora di più di altri in prima linea sul tema del fine vita, occupandosi di persone che hanno più patologie, nessuna prevalente, e molto spesso di anziani.

«I nostri reparti sono davvero evangelici, accolgono tutti», dicono, infatti, mentre il presidente regionale Fadoi, Antonio Luca Brucato, illustra un decalogo che la Federazione ha messo a punto, considerando che «il 45% dei decessi in ospedale avviene nei reparti di Medicina».

«Occorre adoperarsi perché siano rispettati il codice deontologico e le norme di buona pratica clinica – nemmeno il paziente può pretendere di andarvi contro -, nel rispetto della Legge 219», definita il male minore. Poi, «attuare sempre cure proporzionate, con il principio di beneficio del malato e nella probabilità realistica di migliorarne la qualità della vita. Curare fino in fondo i malati terminali e lottare, con ogni mezzo, contro il dolore fisico, formalizzando protocolli da difendere e applicare. Coltivare competenze specifiche sulla nutrizione artificiale, sulla idratazione» e, soprattutto, sulle cure e la sedazione palliative, «perché, magari, il malato non riesce ad arrivare all’hospice e, allora, bisogna approntare, nei reparti di Medicina, protocolli anche su questo. È fondamentale non ritardarle: tutti sanno che sono utili, ma il disaccordo nasce sul quando utlizzarle: si deve essere consapevoli che non c’è contrasto tra cure palliative e attive e che si può applicarle insieme». Infine, l’«astenersi da pratiche futili» e il mettersi in gioco come persone.

«Dobbiamo prendere le nostre responsabilità, mettendo in campo le competenze e non aggiungendo angoscia al parente a cui chiediamo di prendere una decisone. Il terapeuta deve fare la sua proposta e discutere con i familiari, ma la scelta è medica. A tale scopo, è cruciale mantenere un livello di comunicazione intensa, anche all’interno dell’équipe di cura che deve trovare una sola voce. Il decalogo può aiutarci se si vive con pacatezza, autorevolezza, consapevolezza, competenza, la professione».

Tornano, così, alla mente l’articolo 32 della Costituzione – “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti» e le splendide parole del cardinale Martini, pronunciate il 25 novembre del 1999 alla Sapienza di Roma, davanti alle massime cariche dello Stato: «La salute non è un prodotto, il malato non è un cliente, la sanità non è un’azienda».

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