L’inerzia, la caricatura dei preti e la conversione a una visione del Ministero ordinato come luogo della comunione con tutto il presbiterio. Parla dei sacerdoti (anche di se stesso), della vocazione, di cosa significhi «essere oggi prete», l’Arcivescovo, partecipando al convegno online promosso dalla rivista Presbyteri in collaborazione con l’Unione Apostolica del Clero. Il sesto della serie iniziata nel 2019 – gli Atti delle diverse edizioni, dal 2021, sono disponibili su www.presbyteri.it -, che negli anni ha analizzato diversi temi, spaziando dai tempi del prete alla formazione permanente tra mistero e storia, fino ai nuovi modelli di parroco. Quest’anno il titolo dell’assise è ripreso da una famosa canzone di Claudio Baglioni, Strada facendo, e l’obiettivo è quello di approfondire il ruolo dei «preti oggi in un contesto missionario».
A moderare l’incontro – che ha visto anche la relazione della teologa Stella Morra – don Stefano Zeni, della redazione di Presbyteri, mentre è padre Carlo Bozza, Superiore generale della Congregazione di Gesù Sacerdote (proprietaria della rivista di spiritualità pastorale), ad aprire il convegno, ricordando come Presbyteri, nata nel 1965, offra «6 monografie l’anno con attenzione ai problemi, sociali, ecclesiali che sono attorno ai sacerdoti, in modo che i preti possano camminare non da soli»,
Don Stefano Maria Rosati, presidente dell’Unione apostolica del Clero e vicario generale della Diocesi di Parma, spiega: «Siamo discepoli missionari in una Chiesa missionaria, dobbiamo cercare insieme come esserlo, specie ora che abbiamo un papa missionario come Leone XIV. Una sfida in un presbiterio dove vi sono tanti sacerdoti di origine non italiana e molti sono i confratelli rientrati dalla missione ad gentes».
L’inerzia
Dall’«inerzia a proposito del potere», si avvia la comunicazione dell’Arcivescovo.
«Nell’evoluzione propiziata dal Vaticano II anche la vita del prete e le forme del suo Ministero sono molto cambiate. Vi sono stati mutamenti che riguardano, per esempio, i numeri dei preti e dei praticanti, la percezione dei valori e della normatività degli adempimenti e le forme celebrative. C’è, però, un aspetto che risulta costante e che, forse, si può chiamare inerzia: una continuità che, non è propriamente scelta, ma incorreggibile. È il ruolo determinante del prete nella comunità, il potere specie del parroco. Il prete si definisce, così, in una circolarità di fattori che interagiscono: le abitudini antiche, le pretese del sacerdote, le attese delle comunità. Nell’evidente riduzione numerica del clero, il fatto che il compito della decisione, del discernimento, dell’organizzazione della vita delle comunità sia affidata al prete lo espone all’esaurimento delle forze e espone le comunità al persistente malumore per l’insoddisfazione. Ciò merita una riflessione critica, per non vivere soltanto di retorica devota o di un’immagine ideale della comunità», osserva monsignor Delpini, riferendosi a un’ulteriore inerzia, per cui ormai «le statistiche sono diventate più importanti del Vangelo e delle proposte di Papi e dei Vescovi». Statistiche che «decretano il declino ineluttabile della civiltà parrocchiale, della rilevanza della Chiesa sul territorio e l’invecchiamento inarrestabile della gente che va in chiesa. Le statistiche si presentano con l’autorità perentoria dei numeri e inducono a un’inerzia – per me diventata insopportabile – che prende la forma della rassegnazione».
Insomma, un “cercare di sopravvivere”, in modo mortificato e scontento, che implica il senso di impotenza, «in cui, mi sembra, ci sia poco di evangelico».
Le caricature
Un secondo aspetto è legato alle «caricature, magari anche benevole dei presbiteri».
«La caricatura del prete indaffarato, sempre di corsa, sempre al telefono, sempre altrove, lo rende un personaggio molto utile, forse, ma certo non mette in mostra ciò che è desiderabile della vita sacerdotale».
E così anche «la caricatura del prete incasellato nel sacro, con l’esibizione dei caratteri sacrali della liturgia, con l’ossessione della veste talare e delle rubriche liturgiche», o l’esaltazione del «“prete di strada”, trasandato nel vestire, disordinato negli orari, incline a esibire le sue imprese, a marcare la differenza, “non come gli altri, il nostro prete sì che ha l’odore delle pecore”, citando a sproposito papa Francesco». «Sembra, infatti – continua – che il sacro abbia sempre un certo fascino e la figura del prete meriti di produrre serie televisive e film», basti pensare a don Camillo o, più recentemente, a don Matteo, «ma anche su questo siamo incaricati a pensare».
Da qui il passaggio alla disamina del contesto di un tempo diverso che «costringe a un’evoluzione», ma verso quale forma del Ministero e quale identità del presbitero, si chiede e chiede.
Il mondo che cambia
«La mia impressione è che le riflessioni, le proposte, le indagini su quale figura di preti abiterà il futuro della Chiesa siano ispirate da un desiderio di “aggiornamento”, ma c’è il rischio di indicare o desiderare un’evoluzione che sia in senso mondano, piuttosto che cristiano. Per esempio, l’esigenza indiscutibile di abitare i social, l’insistenza sull’ascolto, la generosa sollecitudine per una specie di “pronto soccorso spirituale o psicologico”, sono raccomandazioni che hanno indubbie radici evangeliche nella compassione che condivide gli stessi sentimenti di Gesù e si fa vicino alle persone. Certamente dobbiamo imparare a dialogare con la lingua che la gente parla oggi».
Ma – e qui sta la radice vera della questione – «dobbiamo domandarci se in queste indicazioni vi siano tratti discutibili, che inducono a una specie di sistematica reticenza sull’essenziale del kerygma. L’enfasi sull’ascolto, mi sembra, porti a una specie di cura palliativa di chi viene a bussare alla nostra porta, piuttosto che all’annuncio che solo Gesù è il salvatore, il vero motivo della consolazione che offriamo».
«È, dunque, necessario assumere, con intelligenza critica e sapienza spirituale, l’interpretazione del contesto e delle forme della vita del prete che siano conformi alla docilità allo Spirito Santo, piuttosto che a una precettistica di seduzione, di popolarità o per fare propaganda».
La riflessione dell’Arcivescovo arriva, così, al concetto di conversione articolata in tre punti-chiave. La missione come principio di giovinezza della Chiesa, la riforma del clero dal prete al presbiterio e la forma della procedura cristiana per prendere decisioni cristiane.
La missione
«Ciò che può ispirare la vita della Chiesa è il principio-missione. La missione non diventa di attualità perché diminuiscono i battezzati e i praticanti. Si può dire che l’Italia, come a suo tempo la Francia, sia terra di missione, ma la missione non è un sussulto per recuperare il terreno perduto».
Ma, appunto, cosa significa missione, «una parola troppo usata e poco pensata»? Essa vive di due dinamiche: l’attrattiva e l’apostolato. La Chiesa è missionaria perché il suo modo di vivere è attraente, avendo i tratti di una vita evangelica bella: «Il prete ha come missione prioritaria di curare l’attrattiva della comunità: non deve fare tutto, raggiungere tutti, ma alimentare nei fedeli la passione, lo stile, i linguaggi dell’apostolato edificando la vita della Chiesa. Costruire una Chiesa bella significa edificare una comunità di persone contente che vogliono condividere la loro gioia». In questo, fondamentale per l’Arcivescovo è il laicato con una ministerialità diffusa: «Non è necessario moltiplicare l’istituzione dei ministeri, ma è da incrementare la testimonianza dimostrando che noi siamo grati perché salvati».
La riforma del Clero
«La verità del Ministero, che ha le sue radici nel Vaticano II, sembra indicare l’identità del prete non in quello che fa, non nelle responsabilità di cui deve farsi carico, ma piuttosto nella sua appartenenza al presbiterio. Se l’immaginario, forse ancora troppo diffuso, identifica il sacerdote come “custode del campanile”, come figura solitaria», occorre, allora, riscoprire una priorità della partecipazione del prete alla missione del Vescovo. «Rispetto al “campanile di destinazione”, la figura del prete contemporaneo, invocata da un’interpretazione teologica del contesto attuale, richiede di intendere l’ordinazione come l’inserimento nel clero di una diocesi, nella collaborazione con il Vescovo per la missione apostolica. Il sacerdote è un soggetto che si definisce nella relazione appartenendo a un presbiterio».
Così è anche possibile l’«aggiornamento della spiritualità del prete e la pratica del Ministero, mettendo in evidenza l’obbedienza, l’appartenenza, la fraternità e la vita comune come condizione per vivere il celibato. L’essere presbiteri insieme non vuol dire solo partecipare alle riunioni, ma vivere la fraternità come contesto significativo. Non ci sono eroi solitari, come dice il Papa».
Infine, l’affondo: «Per contrastare l’inerzia, che sembra inestirpabile e per cui il prete è determinante per le scelte pastorali della comunità alla quale è destinato, sembra necessaria una riforma del potere che si chiama “sinodalità”, una parola ripetuta e richiamata fino alla noia, ma che è quel modo di vivere il contesto missionario secondo due aspetti irrinunciabili. Una spiritualità e un metodo per prendere decisioni che è originale nella Chiesa. La sinodalità è uno stile virtuoso di relazione e di corresponsabilità, non per riguadagnare il terreno perduto, ma per vivere la docilità al Signore».




