«Desidero ringraziarti»: è questo l’intento – nonché la prima espressione – della lettera Cantate, cantate al Signore! del nostro Vescovo, uscita lo scorso giorno di santa Cecilia. «Ma possiamo fare meglio»: è l’invito che si trova qualche riga sottostante, a indicare un cammino di conversione personale e comunitaria. I destinatari sono gli animatori musicali delle celebrazioni e, in un certo senso, tutti i cristiani che varcano la soglia delle nostre chiese cantando, pregando, ascoltando, camminando, accogliendo, incrociando gli sguardi delle sorelle e dei fratelli presenti. Non mi sorprende, dunque, che questa lettera abbia avuto una certa eco suscitando reazioni di diversa provenienza e sensibilità:
L’animazione musicale deve saper incarnare il rito
La musica sacra “è” liturgia
Tutta un’altra musica
Prendendo le mosse da questi interventi, provo a delineare tre tensioni polari che invocano di essere tenute vive perché la discussione sul celebrare cantando non si riduca a ideologie e a ingannevoli facili ricette.
Il gregoriano e gli altri
La prima tensione riguarda il rapporto tra il canto cosiddetto gregoriano e gli altri generi musicali. Tutti gli ultimi documenti magisteriali si premurano di indicare quel canto antico come proprio della liturgia cattolica cui va dato, a parità di condizioni, il posto principale. Prima ancora che musica esso è preghiera e la sua nobile sobrietà lo rende capace, quando eseguito con competenza e affetto spirituale, di far percepire il profumo di Cristo in chi partecipa al rito.
Ritengo sia impensabile, per esempio, immaginare di comporre un’altra melodia per cantare i nostri 12 Kyrie processionali: quelle semplici tre note sono indelebilmente legate alla lode e al pentimento che quei Kyrie portano con sé. Al contempo quegli stessi documenti invocano una presenza nel rito di altri generi musicali, compresa la musica di produzione contemporanea: non esiste provenienza musicale vietata a priori, a patto che essa non intrappoli in un piacere appena epidermico o emozionale (o, di contro, sia così lontano da risultare irritante), ma aiuti il credente ad alzare lo sguardo verso l’affacciarsi di Cristo nella vita degli uomini. Solo un discernimento comunitario (diocesano, parrocchiale, comunitario) in relazione con l’assemblea partecipante potrà trovare le giuste soluzioni per onorare questa polarità, senza voler troppo frettolosamente tendere da una parte o dall’altra.
Gli strumenti
La seconda tensione riguarda il rapporto fra l’organo e gli altri strumenti musicali. Il documento del Concilio Vaticano II sulla liturgia ricorda di avere in grande onore l’organo a canne come strumento liturgico principale e allo stesso tempo accoglie nel rito tutti gli strumenti musicali, a condizione che essi siano conformi alla natura della liturgia e aiutino i fedeli a pregare.
Mi si conceda un ricordo autobiografico: la presenza del Signore nei riti celebrati è stata risvegliata in me, da piccolo, dai canti accompagnati con l’organo che volentieri danzava liberamente sulle melodie, con efficaci improvvisazioni sul tema. Ma il secondo amore è sgorgato, ormai grande, quando ho intuito la bellezza di una chitarra che arpeggiava, unita a un flauto che decorava e, certo, a uno strumento a tastiera che sosteneva. Il punto su cui lavorare, ci sembra, non è l’escludere uno o l’altro strumento dalla vita liturgica; piuttosto, favorire una formazione che mostri un modo squisitamente liturgico di suonare la chitarra, il flauto, l’organo, anche nella loro reciproca interazione.
La natura della celebrazione
La terza tensione riguarda la natura duplice della celebrazione: essa è al tempo stesso punto di partenza (fonte) e di arrivo (culmine) della vita della Chiesa. Il secolo XX ci ha indicato come la spiritualità cristiana parta anzitutto dalle parole e dai riti celebrati (e non al di là di essi): con un po’ di orgoglio, il nostro messale ci ricorda che è stato Ambrogio – attraverso le sue omelie e i suoi inni – a dare i natali alla fede in Gesù di Agostino. Allo stesso tempo, ci accorgiamo che una parte del santo popolo di Dio, realmente affezionato al Vangelo e alle sue esigenze, fatica a ritrovarsi nell’andamento rituale della liturgia. Non siamo dunque chiamati né a forzare la liturgia (introducendo musiche, parole, gesti che non le sono propri), né a biasimare i nostri fratelli più reticenti. Il dar vita a celebrazioni extra liturgiche – che dalla liturgia prendano il tema, ma su questo sappiano variare – può essere attività propizia per introdurre musiche, testi e gesti che educhino al pregare celebrato: è anche questo, forse, un segno di una Chiesa realmente in uscita.
Invito anche i lettori di queste pagine a continuare il confronto – personale e comunitario – intorno alla lettera dell’Arcivescovo e, se lo desiderano, a inviare le loro risonanze al Servizio di Pastorale liturgica (liturgia@diocesi.milano.it).