Domenica 8 e lunedì 9 giugno i cittadini italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari: quattro di essi riguardano il mondo del lavoro, e sono stati promossi dalla Cgil. Se approvati, abrogherebbero parte del Jobs Act, una serie di provvedimenti che hanno riformato il mercato del lavoro tra il 2014 e il 2016.
Il primo quesito
Il primo quesito riguarda l’abrogazione della normativa sul licenziamento: per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 sarebbe ripristinata la disciplina precedente. Secondo Michele Faioli, professore associato di Diritto del lavoro all’Università Cattolica, il ritorno alla normativa pre-2015 potrebbe avere conseguenze inattese. Oggi il Jobs Act, anche a seguito di alcuni interventi della Corte costituzionale, prevede che l’indennità massima equivalga a 36 mensilità. In caso di ritorno al vecchio regime, tornerebbe a 24, dodici in meno. «L’elemento di forza del referendum – aggiunge Faioli – è che il regime pre-2015, in riferimento alla reintegrazione, appare più tutelante e generoso rispetto all’attuale, perché il Jobs Act aveva introdotto una logica diversa rispetto agli anni Settanta: spingere verso l’indennizzo economico piuttosto che sulla reintegrazione, per favorire la mobilità dei lavoratori nel mercato. Con il referendum, invece, si intende tornare alla logica pre-2015, secondo cui è meglio tutelare il posto di lavoro, cioè quella posizione professionale in quella specifica azienda, con la reintegrazione, che permettere alle persone di essere sostenute nel mercato del lavoro mediante più efficienti politiche attive e più generose forme risarcitorie per licenziamento illegittimo. La Cgil, invece, vuole tutelare quello specifico posto di lavoro e difendere il concetto di reintegro».

Il secondo quesito
Il secondo quesito si riferisce a una norma risalente agli anni Sessanta. In origine, la legge imponeva al datore di lavoro, in caso di licenziamento illegittimo, l’obbligo di reintegrare il lavoratore, come se l’interruzione del rapporto non fosse mai avvenuta. Una successiva modifica aveva introdotto il concetto di riassunzione, in cui il rapporto era costituito ex novo, interrompendo così la continuità del precedente impiego. Alla riassunzione si affiancava un’indennità economica, che variava tra due, cinque e sei mensilità. Il sindacato ritiene che le norme attuali, predeterminando l’indennità in base all’anzianità di servizio, limitino eccessivamente la capacità del giudice di valutare caso per caso le reali condizioni. Il quesito propone quindi di rafforzare il potere decisionale dei giudici nelle cause di licenziamento illegittimo, soprattutto nelle imprese con meno di 15 dipendenti. La valutazione finale varierebbe così in base alle specifiche circostanze del caso.
Il terzo quesito
Il terzo quesito riguarda il lavoro a termine. La Cgil propone di limitarne l’uso alle causali definite dai contratti collettivi, e che non superino la durata massima di 24 mesi.
Il Jobs Act aveva eliminato le causali per i contratti a termine, permettendone un utilizzo più flessibile fino a un massimo di 36 mesi. «Ci sono alcuni settori, tra cui l’industria, dove questi temi hanno un impatto marginale – spiega Faioli -. Altri, come il turismo e il terziario, che invece hanno sempre fatto ampio uso dei contratti a termine. Dopo la pandemia però, anche le aziende di questi settori non riescono a trovare molti dipendenti, e tendono ad assumere più a tempo indeterminato per essere più attrattive rispetto ai disoccupati».
Il referendum vuole evitare l’abuso al ricorso dei contratti a termine, ma potrebbe irrigidire ulteriormente una disciplina pensata per permettere l’ingresso più veloce nel mercato del lavoro, soprattutto di giovani e donne. Tuttavia, questa flessibilità si tramuta spesso, in alcune aree del Paese e in alcuni settori, anche in precarietà. «Ciò che abbiamo imparato da sistemi simili – aggiunge Faioli – riguarda l’incremento dei contenziosi in tribunale, perché a quel punto i giudici dovranno valutare di volta in volta se esiste o meno nel caso specifico il rispetto della causale indicata dai contratti collettivi».
Il quarto quesito
Il quarto quesito riguarda infine la sicurezza sul lavoro e la responsabilità nelle catene di appalto. Per spiegarlo è necessario premettere che oggi in Italia esiste un regime di solidarietà passiva sugli infortuni subiti dal lavoratore nell’ambito delle catene di valore. Il referendum elimina una norma nel regime, che esclude la responsabilità delle imprese appaltatrici e subappaltatrici sui rischi specifici, propri delle attività delle imprese. Il quesito è pensato per tutte queste catene di valore in cui si nascondono fenomeni elusivi: attraverso operazioni di “spacchettamenti” di attività, le aziende tentano di proteggere il meno possibile i lavoratori. L’obiettivo del referendum è creare così un regime di responsabilità. Anche in caso di successo del referendum, Faioli afferma che la norma sarà in ogni caso ridefinita da una direttiva europea che introdurrà di fatto questa e altre forme di responsabilità per l’appaltante della catena di valore.
La sicurezza del lavoro è ancora oggi uno dei temi più urgenti per i sindacati. Enzo Mesagna, segretario di Cisl Lombardia, ritiene però che sia necessario lavorare anche su altri fronti: «Il referendum propone una responsabilità diretta al committente, ma questo principio è in parte già previsto. Il rischio concreto è di creare solo ulteriori complicazioni burocratiche, senza affrontare le vere cause degli incidenti. Dovremmo concentrarci sul rafforzare il sistema ispettivo, ma dobbiamo fare un salto di qualità anche dal punto di vista culturale, partendo dall’educazione, sensibilizzando i giovani già dalle scuole, affinché sviluppino una consapevolezza concreta sui rischi e sulle buone pratiche nel mondo del lavoro».
Oltre al tema dell’affluenza, i referendum devono ovviamente convincere gli elettori, ma un ostacolo potrebbe paradossalmente giungere dai sindacati. I quesiti sono stati infatti promossi esclusivamente dalla Cgil, senza l’appoggio esplicito delle altre sigle. Mesagna, per esempio, esprime dubbi sull’utilizzo dei referendum per intervenire su temi complessi come il lavoro: «Il rischio è che cancellino gli aspetti positivi già presenti nella legislazione esistente. Il Jobs Act ha delle criticità che non abbiamo mai mancato di sottolineare, ma, in un mercato di lavoro già molto diverso rispetto a quello che vediamo oggi, ha introdotto anche aspetti positivi: ha cercato di contrastare la pratica delle dimissioni in bianco, ha colpito le false partite Iva e, soprattutto, ha incentivato il tema dei contratti a tempo indeterminato».




