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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Sessant’anni fa

Quando Giovanni XXIII fermò la minaccia nucleare

L’invasione russa dell’Ucraina ha bruscamente rianimato il mostro del conflitto atomico, che precipiterebbe il mondo in un precipizio senza ritorno. Lo stesso incubo vissuto da donne e uomini degli anni Sessanta, che pure si apprestavano a entrare nella stagione della ricchezza e del benessere

di Marcello Mancini Agensir da “Toscana Oggi”

10 Ottobre 2022
Giovanni XXIII

Quando nel 1989 cadde il Muro di Berlino, il mondo pensò che la contrapposizione fra le due grandi potenze – Unione Sovietica e Stati Uniti – che aveva tenuto sotto la minaccia di una guerra nucleare i popoli liberi fosse finita e che la pace sarebbe diventata più reale di un proposito. O di uno slogan scandito nei cortei. Nessuno avrebbe immaginato che ci saremmo dovuti confrontare ancora, all’improvviso, con il rischio di un conflitto atomico.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha bruscamente rianimato il mostro. E ancora ci svegliamo ogni giorno con la paura che qualcosa a est sia drammaticamente cambiato nelle ultime ore, ingoiando il mondo in un precipizio senza ritorno. Probabilmente è lo stesso risveglio che, all’alba degli anni Sessanta, vissero le donne e gli uomini del pianeta che pure si apprestavano a entrare nella stagione, che oggi evochiamo spesso, della ricchezza e del benessere.

I missili di Cuba

Il brusco risveglio ha una data: il 22 ottobre 1962. Quando il presidente Usa John Kennedy parlò al popolo americano attraverso radio e televisione, per spiegare che Mosca aveva installato missili nucleari a Cuba, volgendo le testate verso gli Stati Uniti.

Missili balistici a media portata – dettagliò Kennedy – capaci di trasportare una spoletta nucleare per oltre 1.600 chilometri, potendo raggiungere così Washington, il canale di Panama e altre zone dei Caraibi. Aveva le prove. Foto scattate da un aereo spia U2 documentavano la presenza dei missili. L’ambasciatore Usa all’Onu informò il mondo, nell’imbarazzo del collega russo, che negò e poi si arrese di fronte all’evidenza davanti alla costernata assemblea generale delle Nazioni unite.

Kennedy non si limitò alla denuncia e rispose con un blocco navale dell’isola di Cuba, definendolo, ante litteram, «quarantena», anche se non si trattava di un problema sanitario. Le sue parole furono chiare: «Tutte le navi, da qualsiasi nazione provengano, verranno fatte tornare indietro, qualora abbiano a bordo carichi di armi offensive. Qualunque attacco missilistico, lanciato da Cuba contro un Paese dell’Occidente, sarà considerato come un attacco agli Stati Uniti e comporterà un’azione di rappresaglia contro l’Unione sovietica».

Il messaggio era diretto a Kruscev, capo del Cremlino, che forse aveva sperato di trovare nel giovane presidente americano, così innamorato della pace, un avversario più debole. Ora Kruscev si trovava di fronte alla richiesta di smantellare le strutture di lancio, sotto gli occhi del pianeta.

Fra gli Stati Uniti e Fidel Castro del resto non correva buon sangue, specialmente dopo quello che era successo un anno prima alla Baia dei Porci: un blitz di esuli cubani, organizzato dalla Cia durante l’amministrazione Eisenhower per rovesciare il regime castrista, fallì miseramente e fu respinto dalle forze armate cubane equipaggiate e addestrate da alcune nazioni filo sovietiche. Fu probabilmente quest’operazione protetta dagli Usa (e subita da Kennedy, che non ebbe la forza di fermarla) a muovere Kruscev, irritato anche dalla presenza di missili balistici americani Jupiter nelle basi in Italia e in Turchia.

La crisi dei missili cubani fu il momento più drammatico della cosiddetta guerra fredda fra Stati Uniti e Unione sovietica: durò due settimane, dal 16 al 28 ottobre, da quando Kennedy fu informato dalla Cia della scoperta dell’aereo spia americano a quando venne raggiunto l’accordo con Mosca. Il mondo in quei lunghi giorni ebbe una reazione comune per la pace.

L’intervento del Papa

Si ritiene determinante l’intervento di Giovanni XXIII, proprio mentre si stava aprendo in San Pietro il Concilio Vaticano II. Dal Pontefice, sollecitato dallo stesso presidente cattolico Kennedy, salì la preghiera per il «bene supremo della pace», accompagnata da un appello a coloro che hanno la responsabilità del potere: «Con la mano sulla coscienza, che ascoltino il grido angoscioso che, da tutti i punti della terra, dai bambini innocenti agli anziani, dalle persone alle comunità, sale verso il cielo: Pace! Pace!».

L’ateo Kruscev ascoltò e ringraziò il Papa. Eppure è strano che per anni il ruolo vaticano sia stato praticamente ignorato dalla storiografia. Almeno finché, nel 2000, furono aperti gli archivi sovietici. Dai quali si dimostrava come il passo di papa Giovanni avesse ammorbidito l’atteggiamento del Cremlino, anche verso la Chiesa, tanto che successivamente Kruscev inviò gli auguri per l’ottantesimo compleanno del Pontefice e, per la prima volta, il 27 dicembre 1962 la Pravda, il giornale di regime, pubblicò ampi stralci del suo messaggio natalizio, con un commento positivo.

L’efficacia dell’appello papale sulle coscienze dei protagonisti è quindi indubbia. Ovvio che la crisi si risolse per via diplomatica ed ebbe altre componenti, da valutare, per poter dare un giudizio completo e poter sostenere chi abbia ceduto fra Usa e Urss.

Kruscev, con le spalle al muro, fece due proposte di accordo a Kennedy, una delle quali richiedeva, in cambio del disarmo dei missili sovietici a Cuba, lo smantellamento delle basi americane in Turchia e in Italia. Mossa che avrebbe messo la posizione americana in condizioni di debolezza. Se ne uscì, dunque, per una via di mezzo.

Protagonista dell’intesa il fratello del presidente, Robert Kennedy, che in quelle due settimane si incontrò più volte con l’ambasciatore sovietico. Il compromesso, che John Kennedy portò a casa e poté esibire al mondo che si era trovato sull’orlo dell’apocalisse, fu siglato il 28 ottobre 1962: l’Unione sovietica accettò pubblicamente di smantellare le basi a Cuba e gli Stati Uniti accettarono, in segreto però, di eliminare i loro missili nucleari in Italia e Turchia.

Da quella volta sono state sfiorate altre crisi internazionali, ma le relazioni dirette fra le due grandi potenze furono semplificate, perché è proprio dopo quel pericolo scampato che venne istituito il famoso “telefono rosso”, che metteva in collegamento il Cremlino e la Casa Bianca, attraverso il quale i due leader avrebbero potuto comunicare più facilmente.

Da allora, in sessant’anni, il pericolo di conflitto nucleare non è mai stato evocato come in questi mesi dopo l’invasione dell’Ucraina. I sistemi sono più sofisticati, gli effetti della guerra sono più violenti, qui ci sono morti e un raffronto non si può fare. Ma il dialogo – quello che, nonostante fossero avversari, infine mise d’accordo Kruscev e Kennedy – che fece uscire la crisi dei missili da un impasse che sembrava insormontabile, non dovrebbe tramontare mai. In ogni circostanza e a ogni latitudine, anche nelle situazioni più complicate.