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Estate

In chiesa con l’infradito Un problema di regole

Con le vacanze torna d'attualità il tema dell'abbigliamento poco formale e spesso succinto nei luoghi di culto. Ne abbiamo parlato con Marinella Calzona, esperta di Scienze dell'Educazione e teologa. «Non serve strapparsi le vesti, ma occorre offrire elementi utili ai fedeli per recuperare la sacralità degli spazi»

di Annamaria BRACCINI Redazione

10 Giugno 2010

Infradito sì, infradito no. Anche se finalmente è arrivata l’estate, forse, bisognerebbe capire che non tutti i luoghi, specialmente a Milano, sono in riva al mare. E non è necessario stupirsi se a scuola, il professore, e ancora di più, in chiesa, il parroco, impongono qualche regola. Non si tratta di oscurantismo, ma prima di tutto di rispetto e di buon senso.
Il problema c’è: lo dice chiaramente “un’addetta ai lavori”: Marinella Calzona, tra le fondatrici dell’associazione Moda e Modi e del portale Imore, teologa ed esperta in Scienze dell’Educazione, che spiega senza mezzi termini quanto la questione sia molto più ampia di un semplice interrogativo di costume: «Il tema dell’abbigliamento poco formale e spesso succinto in luogo sacro tocca tutti. La moda o il modo di vestirsi, in bene e in male, è specchio dei tempi. Non a caso il sociologo Zygmunt Baumann ha definito il nostro tempo “Modernità liquida”, proprio per indicare che non esistono punti di riferimento, sicurezze, mentre prende sempre più piede una vita, appunto, “liquida”, costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo, specie a quelle relative al consumo, per non sentirsi esclusa. Evidente, in un tale contesto, il rischio che corrono i giovani, sempre più fragili e immersi in un modello culturale senza “paletti” che aiutino a definire ciò che è bene e ciò che è male. D’altra parte, l’abbigliamento, per i ragazzi, è un segno di appartenenza e omologarsi agli standards dei coetanei regala loro quella sicurezza che non hanno per immaturità. Il problema di oggi è la mancanza di coscienza di sé e del proprio corpo. Da un lato, il corpo non ha valore, lo “svendo” mettendolo in mostra; dall’altro, dico tutto di me con il corpo e attraverso il corpo, perché il mio valore sta lì per intero. Lo si cura in modo eccessivo, lo si usa per raccontarsi, questo è il significato, ad esempio, dei tatuaggi. Un altro fattore che si deve tenere presente è l’aspetto commerciale: i giovani sono un mercato molto appetibile per il mondo della moda: su questo settore del consumo si fanno investimenti anche ingenti, si privilegia il desiderio tipico dell’età di cambiare spesso capi ed è, quindi, del tutto chiaro che più si diffonde l’omologazione, più si vende. Ora è trendy questo, domani già tutt’altro. Non dimentichiamo, poi, che sull’abbigliamento giovanile nel quotidiano ha un’influenza determinante la televisione, in mancanza di altri modelli. Gli eroi dei nostri tempi, purtroppo, sono le veline, i protagonisti di certi show, gli sportivi, le celebrity. Naturalmente per queste persone è di somma importanza “apparire” ed apparire comunque, quindi anche accettando di rompere regole».
Insomma, si vorrebbe entrare in chiesa vestiti come si va sull’Isola dei famosi? «Sì. Mancando i princìpi, sfugge l’idea che sia necessario adeguare l’abbigliamento al luogo, alle circostanze e all’identità personale: ossia a “chi sono”, a “come sono fatto”, all’età e al ruolo. Relativamente al vestiario con cui entrare in chiesa, il problema – ma anche la via di soluzione – sta a monte e significa recuperare il senso della sacralità degli spazi. La questione vera ha molto a che vedere con la formazione e la catechesi di giovani ed adulti: occorre tornare a percepire che un luogo è sacro perché è luogo della presenza di Dio in mezzo agli uomini, comprendendo, ancor più in profondità, “chi sia Dio”».
Qualche soluzione da suggerire, a genitori in difficoltà e a sacerdoti preoccupati? «Una volta recuperato questo senso compiuto del sacro sarà più facile che l’abbigliamento sia più adeguato. Nel frattempo è necessario che la catechesi, voglio dire anche la predica domenicale, ci indichi con esattezza ciò che è adatto al luogo di culto e ciò che non lo è. Non serve strapparsi le vesti come se si volesse imporre il burqua, occorre semmai, offrire elementi utili, come i dress code che stanno adottando tante aziende per salvaguardare la loro immagine. È interessante che, ultimamente, anche in tante scuole si stiano dettando alcune regole proprio in vista dell’estate». Infradito sì, infradito no. Anche se finalmente è arrivata l’estate, forse, bisognerebbe capire che non tutti i luoghi, specialmente a Milano, sono in riva al mare. E non è necessario stupirsi se a scuola, il professore, e ancora di più, in chiesa, il parroco, impongono qualche regola. Non si tratta di oscurantismo, ma prima di tutto di rispetto e di buon senso.Il problema c’è: lo dice chiaramente “un’addetta ai lavori”: Marinella Calzona, tra le fondatrici dell’associazione Moda e Modi e del portale Imore, teologa ed esperta in Scienze dell’Educazione, che spiega senza mezzi termini quanto la questione sia molto più ampia di un semplice interrogativo di costume: «Il tema dell’abbigliamento poco formale e spesso succinto in luogo sacro tocca tutti. La moda o il modo di vestirsi, in bene e in male, è specchio dei tempi. Non a caso il sociologo Zygmunt Baumann ha definito il nostro tempo “Modernità liquida”, proprio per indicare che non esistono punti di riferimento, sicurezze, mentre prende sempre più piede una vita, appunto, “liquida”, costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo, specie a quelle relative al consumo, per non sentirsi esclusa. Evidente, in un tale contesto, il rischio che corrono i giovani, sempre più fragili e immersi in un modello culturale senza “paletti” che aiutino a definire ciò che è bene e ciò che è male. D’altra parte, l’abbigliamento, per i ragazzi, è un segno di appartenenza e omologarsi agli standards dei coetanei regala loro quella sicurezza che non hanno per immaturità. Il problema di oggi è la mancanza di coscienza di sé e del proprio corpo. Da un lato, il corpo non ha valore, lo “svendo” mettendolo in mostra; dall’altro, dico tutto di me con il corpo e attraverso il corpo, perché il mio valore sta lì per intero. Lo si cura in modo eccessivo, lo si usa per raccontarsi, questo è il significato, ad esempio, dei tatuaggi. Un altro fattore che si deve tenere presente è l’aspetto commerciale: i giovani sono un mercato molto appetibile per il mondo della moda: su questo settore del consumo si fanno investimenti anche ingenti, si privilegia il desiderio tipico dell’età di cambiare spesso capi ed è, quindi, del tutto chiaro che più si diffonde l’omologazione, più si vende. Ora è trendy questo, domani già tutt’altro. Non dimentichiamo, poi, che sull’abbigliamento giovanile nel quotidiano ha un’influenza determinante la televisione, in mancanza di altri modelli. Gli eroi dei nostri tempi, purtroppo, sono le veline, i protagonisti di certi show, gli sportivi, le celebrity. Naturalmente per queste persone è di somma importanza “apparire” ed apparire comunque, quindi anche accettando di rompere regole».Insomma, si vorrebbe entrare in chiesa vestiti come si va sull’Isola dei famosi? «Sì. Mancando i princìpi, sfugge l’idea che sia necessario adeguare l’abbigliamento al luogo, alle circostanze e all’identità personale: ossia a “chi sono”, a “come sono fatto”, all’età e al ruolo. Relativamente al vestiario con cui entrare in chiesa, il problema – ma anche la via di soluzione – sta a monte e significa recuperare il senso della sacralità degli spazi. La questione vera ha molto a che vedere con la formazione e la catechesi di giovani ed adulti: occorre tornare a percepire che un luogo è sacro perché è luogo della presenza di Dio in mezzo agli uomini, comprendendo, ancor più in profondità, “chi sia Dio”».Qualche soluzione da suggerire, a genitori in difficoltà e a sacerdoti preoccupati? «Una volta recuperato questo senso compiuto del sacro sarà più facile che l’abbigliamento sia più adeguato. Nel frattempo è necessario che la catechesi, voglio dire anche la predica domenicale, ci indichi con esattezza ciò che è adatto al luogo di culto e ciò che non lo è. Non serve strapparsi le vesti come se si volesse imporre il burqua, occorre semmai, offrire elementi utili, come i dress code che stanno adottando tante aziende per salvaguardare la loro immagine. È interessante che, ultimamente, anche in tante scuole si stiano dettando alcune regole proprio in vista dell’estate».