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Economia

Una Fiat più grande, ma meno italiana

Dopo l'accordo con Chrysler e la trattativa per l'acquisto di Opel, potrebbe nascere un colosso mondiale da 80 miliardi di euro di fatturato. Ma i lavoratori potrebbero essere meno tutelati e l'impresa sarebbe molto diversa da quella degli Agnelli

Nico CURCI Economista Redazione

7 Maggio 2009
Workers at Opel's plant in the western German city of Kaiserslautern arrive for the morning shift on May 5, 2009. Fiat CEO Sergio Marchionne drummed up support in Berlin the day before for audacious plans to snap up GM's European arm and combine it with the bankrupt Chrysler to create a new global auto giant. AFP PHOTO DDP / TORSTEN SILZ GERMANY OUT

Se andassimo a leggere quello che i giornali di tutto il mondo scrivevano sulla Fiat fino a cinque anni fa, si stenta davvero a credere a quanto stiamo assistendo nell’industria automobilistica mondiale. Quell’azienda ritenuta capace di produrre solo «bidoni» (la traduzione italiana di «lemons», dispregiativo con cui si indicano auto di pessima qualità) è stata indicata da Obama in persona come l’unica àncora di salvezza per Chrysler, il terzo gruppo automobilistico americano.
A ciò si aggiunge la ancora più incredibile trattativa portata avanti da Fiat per comprare da General Motors i suoi marchi europei, Opel, Vauxall e Saab. E c’è addirittura chi inizia a pensare che l’amministratore delegato Marchionne chiederà a Gm di acquistare anche i marchi presenti sui mercati sudamericano e asiatico, diventando, di fatto, il salvatore di tutta l’industria automobilistica americana. Se ciò si dovesse davvero verificare, nascerebbe un colosso mondiale capace di vendere tra i 6 e i 7 milioni di auto nel mondo, per un fatturato di oltre 80 miliardi di euro: un gigante che andrebbe a competere con Volkswagen per il secondo posto tra i produttori mondiali dopo la Toyota.
Molti si chiedono come ciò sia possibile. Anche il Commissario europeo all’Industria, il tedesco Guenther Verheugen, considerando l’alto indebitamento attuale di Fiat, si è poco elegantemente chiesto dove Torino trovi i soldi per operazioni così importanti, suscitando qualche polemica politica e la frettolosa e imbarazzata presa di distanza di tutta la Commissione europea.
La risposta di Marchionne è forse in una sua intervista di qualche tempo fa, quando affermò che le azioni Chrysler oggi valgono zero e zero moltiplicato per centinaia di milioni fa sempre zero, per cui l’azienda di Detroit non vale nulla, pur essendo così grande. Ragionamenti simili si potrebbero applicare anche a Opel. Mentre Marchionne è convinto che Fiat oggi abbia un valore positivo e quindi abbia la forza per fare queste operazioni. E il valore positivo, sintomo di attesi profitti futuri, per Marchionne è tutto nel vantaggio competitivo che l’azienda italiana possiede sui suoi concorrenti nella produzione di auto piccole ed efficienti sotto il profilo energetico. Tale vantaggio, finora poco apprezzato dal mercato, è diventato il grande asso nella manica di Torino, quando l’America ha scelto Obama come presidente. In quel momento è stato chiaro che solo una conversione totale dell’economia al nuovo verbo del risparmio energetico ci avrebbe portato fuori dalla crisi. E Marchionne, a differenza di altri concorrenti, ne ha voluto e potuto approfittare. Se andassimo a leggere quello che i giornali di tutto il mondo scrivevano sulla Fiat fino a cinque anni fa, si stenta davvero a credere a quanto stiamo assistendo nell’industria automobilistica mondiale. Quell’azienda ritenuta capace di produrre solo «bidoni» (la traduzione italiana di «lemons», dispregiativo con cui si indicano auto di pessima qualità) è stata indicata da Obama in persona come l’unica àncora di salvezza per Chrysler, il terzo gruppo automobilistico americano.A ciò si aggiunge la ancora più incredibile trattativa portata avanti da Fiat per comprare da General Motors i suoi marchi europei, Opel, Vauxall e Saab. E c’è addirittura chi inizia a pensare che l’amministratore delegato Marchionne chiederà a Gm di acquistare anche i marchi presenti sui mercati sudamericano e asiatico, diventando, di fatto, il salvatore di tutta l’industria automobilistica americana. Se ciò si dovesse davvero verificare, nascerebbe un colosso mondiale capace di vendere tra i 6 e i 7 milioni di auto nel mondo, per un fatturato di oltre 80 miliardi di euro: un gigante che andrebbe a competere con Volkswagen per il secondo posto tra i produttori mondiali dopo la Toyota.Molti si chiedono come ciò sia possibile. Anche il Commissario europeo all’Industria, il tedesco Guenther Verheugen, considerando l’alto indebitamento attuale di Fiat, si è poco elegantemente chiesto dove Torino trovi i soldi per operazioni così importanti, suscitando qualche polemica politica e la frettolosa e imbarazzata presa di distanza di tutta la Commissione europea.La risposta di Marchionne è forse in una sua intervista di qualche tempo fa, quando affermò che le azioni Chrysler oggi valgono zero e zero moltiplicato per centinaia di milioni fa sempre zero, per cui l’azienda di Detroit non vale nulla, pur essendo così grande. Ragionamenti simili si potrebbero applicare anche a Opel. Mentre Marchionne è convinto che Fiat oggi abbia un valore positivo e quindi abbia la forza per fare queste operazioni. E il valore positivo, sintomo di attesi profitti futuri, per Marchionne è tutto nel vantaggio competitivo che l’azienda italiana possiede sui suoi concorrenti nella produzione di auto piccole ed efficienti sotto il profilo energetico. Tale vantaggio, finora poco apprezzato dal mercato, è diventato il grande asso nella manica di Torino, quando l’America ha scelto Obama come presidente. In quel momento è stato chiaro che solo una conversione totale dell’economia al nuovo verbo del risparmio energetico ci avrebbe portato fuori dalla crisi. E Marchionne, a differenza di altri concorrenti, ne ha voluto e potuto approfittare. Potere ai manager Il bello, però, deve ancora venire. Le incognite sulla strada della creazione di questo “mostro” dell’industria mondiale sono ancora molte. E noi italiani faremmo bene a valutarle tutte, prima di dare un’entusiastica, ma molto approssimativa adesione al progetto, una volta tanto che il nostro orgoglio nazionale può essere giustamente appagato. Infatti è molto improbabile che l’operazione vada in porto senza una drastica riduzione di posti di lavoro anche negli impianti italiani del nuovo gruppo. Il Governo e i sindacati tedeschi non accetterebbero mai di sopportare da soli l’onere della ristrutturazione. Quindi i lavoratori italiani di Fiat potrebbero presto trovarsi a che fare con pesanti tagli.Ma c’è dell’altro. Quello che nascerebbe sarebbe qualcosa di diverso dalla vecchia Fiat, cioè l’impresa degli Agnelli. Il controllo su di essa sarebbe esercitato dalla famiglia con una quota di azioni inferiore al 30%, quindi comunque meno di quanto necessario per avere la maggioranza assoluta nelle assemblee. Il vero dominus del gruppo sarebbe proprio il suo management, guidato da Marchionne stesso. E la sterminata dimensione internazionale renderebbe molto più tenue il potere dei sindacati nazionali (italiani, tedeschi o americani che siano), come anche dei Governi.Insomma, sarebbe una Fiat molto grande, ma anche molto meno italiana. A quel punto bisognerà capire se il nostro Paese saprà o vorrà stare dietro a un colosso del genere. Per farlo, dovrà investire sempre più in istruzione e ricerca, altrimenti il nuovo gruppo, anziché “pensare italiano”, troverà altrove il luogo più consono per muovere le leve del comando di una macchina così complessa. È bene dunque che l’Italia intera, nel momento in cui la prospettiva della grande Fiat dovesse davvero mostrarsi come realizzabile, inizi a pensarci sopra. Sarebbe davvero un bel modo per uscire dalla crisi molto più forti e competitivi di prima.

Operai all'ingresso degli stabilimenti della Opel