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Vivere a Gaza

Sacerdoti ambrosiani pellegrini in Terrasanta testimoni del difficilissimo "quotidiano" delle popolazioni che abitano la striscia, dove nei giorni scorsi è stato abbattuto il "muro" verso l'Egitto

5 Giugno 2008

25/01/2008

di Massimo PAVANELLO

Ashkelon ha un primato. È la città più antica nelle cui mura si è trovata una porta ad arco costruita circa 4 mila anni fa. La guardiamo incantati insieme al gruppo di sacerdoti ambrosiani che la scorsa settimana si sono recati in Terrasanta per celebrare il loro ventesimo anniversario d’ordinazione.

Un ronzio però c’infastidisce, catapultandoci dalla storia profonda alla cronaca più scottante. Due elicotteri ci sorvolano per un attimo. L’orecchio più allenato coglie raffiche in lontananza. Siamo a 10 km dalla striscia di Gaza e Jacob – la nostra guida cristiano-palestinese – non può sottrarsi alla sollecitazione di un commento.

Lo fa in maniera un po’ svogliata, quasi si trattasse di routine per lui: «Vanno a bombardare Gaza. Come ogni giorno. Senz’altro ci saranno morti. Ma i morti di quel territorio non fanno notizia. E soprattutto non smuovono i potenti affinché si giunga a una soluzione».

L’intuizione di Jacob è giusta, ma questa volta la notizia c’è stata. I morti purtroppo sono stati diversi e i riflettori si sono riaccesi su quel campo profughi a cielo aperto. Il nostro accompagnatore, però, ha anche un’altra certezza: «Nessuno vuole la striscia di Gaza. Gli israeliani la cederebbero subito agli egiziani, ma neppure questi in realtà la vogliono. Le operazioni israeliane intendono proprio raggiungere il risultato di sbarazzarsi di questo lembo di terra. Ma Gaza è un costo eccessivo per tutti».

In effetti il circolo vizioso nel quale la città è caduta appare anche al turista di passaggio: l’occupazione ha prodotto violenza, la violenza ha prodotto contromisure rigorose, le contromisure rigorose hanno incattivito gli abitanti che trovano nella violenza l’unica via di sfogo. Sembra quasi che oggi si combatta avendo persino perso le ragioni originarie.

Che la situazione abbia i tratti dell’irrazionalità, ci viene confermato anche da una voce italiana, suor Lucia. Lavora al Baby Hospital di Betlemme, la città chiusa da un muro alto cinque metri. Visitiamo con lei quest’ospedale dei bambini, unico presidio sanitario del luogo. Ègestito da un’organizzazione cattolica, ma ospita per lo più figli di musulmani. Le malattie qui diagnosticate sono le più varie, da quelle semplici a quelle più gravi.

«Parlo di diagnosi – ci confida la religiosa -, poiché tante volte solo questa possiamo fare. Per i casi più complicati avremmo bisogno di strutture adeguate, ma con la costruzione del muro tutto è diventato più difficile. Se anche troviamo un posto in un ospedale israeliano, ovviamente a pagamento, dobbiamo attendere un permesso speciale. Stesso permesso deve avere un genitore per accompagnare il figlio dall’altra parte. Se il genitore è segnalato dalla giustizia si dovrà rintracciare qualche parente con la fedina pulita. La nostra ambulanza poi potrà arrivare solo fino al check-point. Da lì un’altra ambulanza porterà il bimbo a destinazione. Tempi impossibili per i malati gravi. Tuttavia accadono anche veri miracoli: quanti bambini sono così attaccati alla vita da sopravvivere contro ogni aspettativa!».

Le pastoie burocratiche investono pure l’ambito ecclesiale. Ce lo ha ricordato padre Firas, prete giordano impegnato nel West Bank. La restrizione dei permessi – ufficialmente nei confronti degli “Stati nemici”, ma di fatto allargati anche a Giordania ed Egitto, che hanno però firmato accordi di pace con Israele – rallenta la Chiesa nella propria missione. «Il Patriarcato di Gerusalemme, per esempio – racconta p. Firas -, ha giurisdizione su Israele, Palestina e Giordania. Ma i seminaristi, che provengono da diverse zone, non possono rientrare nelle loro case neppure per un saluto alle famiglie, poiché perderebbero il diritto di tornare in seminario. Stesso trattamento riservato ai preti provenienti dai medesimi luoghi: possono entrare in Israele solo con permesso temporaneo indicando i loro spostamenti. E non è detto che sempre lo ottengano. La Santa Sede ha richiamato diverse volte l’attenzione su queste limitazioni, ma non è ancora cambiato nulla».

A questi coriandoli di racconto, però, se n’aggiunge un altro. Di segno diverso. È la scena, fotografata in territorio tutto israeliano, di una scolaresca delle elementari che consuma il pasto al sacco sulla riva del mare. Giocano come tutti i bambini del mondo. A vegliare su di loro però ci sono due “bidelli” armati di mitra. Abbiamo di nuovo le idee confuse.