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«La solitudine è il vero dramma dei malati terminali»

L'attività dell'hospice "Il Gelso" di Erba e la testimonianza del suo assistente, spirituale, il passionista padre Aldo Ferrari

9 Dicembre 2008

09/12/2008

di Enrico VIGANÒ

Accompagnare i malati non assistibili a domicilio e in fase avanzata o terminale mediante il controllo del dolore e del disagio fisico o psichico: è questa la finalità che si pongono i centri residenziali di cure palliative (hospice) sparsi ormai in tutta Italia. In Lombardia sono una cinquantina. Una realtà assistenziale, però, non molto conosciuta tra la popolazione. Infatti una recente ricerca dell’Ipsos conferma che ben il 76% degli italiani non ne conosce l’esistenza. E questa mancanza di informazione adeguata è forse la causa del mancato pieno utilizzo di alcuni hospice.

Tra questi vi è il Centro Residenziale Cure palliative “Il Gelso” di Erba. Sorto il 13 dicembre 2005, garantisce un’assistenza medica e infermieristica 24 ore su 24, per tutto l’anno. «L’ hospice – dice il presidente Antonio Frigerio – vuole offrire un sostegno alle famiglie in difficoltà ed è completamente a carico del servizio sanitario».

Direttore sanitario è la dottoressa Antonella Biffi, che con il medico responsabile dottoressa Evelina Perego guida un’équipe composta da medici, psicologa, infermieri, assistente sociale e assistente spirituale. Una figura, quest’ultima, fondamentale. «Da non confondere, però, con il cappellano – precisa padre Aldo Ferrari, passionista, assistente spirituale de “Il Gelso” -, che è chiamato soprattutto per l’amministrazione dei sacramenti. Il mio compito, invece, è di creare un contatto con il malato per accompagnarlo nel suo cammino verso l’incontro con il Mistero ultimo della vita».

Al “Gelso” i pazienti sono in camera singola, spaziosa, con servizi indipendenti: tutto è finalizzato a garantire il più elevato livello di umanizzazione possibile. «Nell’hospice – continua padre Aldo – il malato deve avere la consapevolezza che tutti sono a sua completa disposizione. L’incontro settimanale dell’équipe per me è fondamentale, perché mi permette di conoscere la situazione interiore che i singoli degenti stanno vivendo. Con il malato parlo di tutto, ma soprattutto cerco di stargli vicino, perché possa superare la solitudine, il vero dramma di questi malati. È la solitudine che porta all’eutanasia, più che la sofferenza. La voglia di farla finita scaturisce dal sentirsi abbandonati da tutti. È importante per questo instaurare un rapporto empatico sia con il malato, sia con i parenti. Perché a volte i parenti sono di ostacolo a chi soffre: o non dicono la verità pensando che il loro congiunto non intuisca, oppure lo deprimono maggiormente. La verità non va sbattuta in faccia, ma va detta gradualmente. E sempre con carità».

Quella dell’assistente spirituale è una missione, sicuramente non facile. «Purtroppo alcuni non vogliono l’accompagnamento del sacerdote cattolico, e anche a me è capitato di essere rifiutato – conclude padre Aldo -. Ma generalmente il malato, se trova persone che gli vogliono bene, che lo amano, supera lo scoramento. La psicologa e psicoanalista Marie de Hennezel dice che con loro occorre avere un rapporto aptonomico, cioè approccio affettivo, fatto anche di carezze, di contatto rassicurante, terapeutico, vitale. Lo stesso che diamo a un bambino bisognoso di tutto. Insomma, occorre molto amore. Proprio di questo ha bisogno la nostra società, sempre più laicizzata, che preferisce usare neologismi o parole ambigue, invece di parole rassicuranti come amore, accompagnamento, carità, Dio».