Il «folle di Dio» che, fermo in piazza del Duomo, comprende ciò che il fiume di gente che corre senza una vera meta, non vede più. Il «folle di Dio» che ha solo tre parole, ma che sono le uniche che contano davvero: «gioia, rallegrati piena di grazia, il Signore è con te».
L’Arcivescovo che, per il nono anno consecutivo – come tradizione dei Pastori ambrosiani nella VI di Avvento, domenica della Divina Maternità di Maria – presiede l’Eucaristia nella grande chiesa interna all’“Istituto Luigi Palazzolo”, dice questo ai tanti ospiti nelle prime file con le loro carrozzine, al personale medico e infermieristico, ai vertici della struttura, ai volontari e ai familiari dei degenti, agli Alpini sempre presenti, alla diaconia con le Suore e il diacono permanente Sergio Legramandi che svolge servizio pastorale presso l’Istituto. Concelebrano il rito, don Enzo Barbante, presidente della Fondazione Don Carlo Gnocchi, (di cui il “Palazzolo” fa parte dal 1998) e il cappellano, don Enzo Rasi, che nel suo saluto di benvenuto ricorda il Giubileo dei malati del 15 febbraio scorso in Cattedrale e la costante presenza del vescovo Mario Delpini in tanti anniversari e date importanti per il “Palazzolo”. Non mancano il direttore generale della “Don Gnocchi”, Francesco Converti e il direttore dell’Area strategica e dell’Istituto, Antonio Troisi.
La Messa
L’omelia della celebrazione è un richiamo, anzi quasi un inno, alla narrazione evangelica dell’annuncio a Maria. «Io me ne sto qui, guardo la Madonnina e prego, dice il folle di Dio. Non mi muovo: mi incanta e la saluto. Tu, invece, corri e corri, ma che cosa fai? Ti affanni e ti dai pensiero di troppe cose. Io non sono capace: me ne sto qui incantato e vedo il cielo e la terra piena di angeli. Ogni sorriso, ogni lacrima, ogni volto: ecco, ci sono angeli che mi salutano da parte di Dio».
Mentre noi, oggi, sulla terra vediamo «solo uomini e donne, tutta gente che corre, forse per andare incontro alla morte», suggerisce l’Arcivescovo, dando voce a un ipotetico (ma molto realistico) umano del terzo millennio, al quale il folle – che ovviamente non lo è affatto – risponde. «Le parole antiche, le parole sante mi chiamano dentro il mistero. Le parole che non si logorano con il tempo, le poche parole che mi danno vita e sono luce, invece tu riempi la terra e svuoti il silenzio con le tue parole sceme, grigie, con le tue infinite chiacchiere vuote, con parole che sono maschere, armi e sono cattive».

Da qui la conclusione del dialogo, con il presunto saggio che non riesce a smuovere il presunto folle il quale, infine, dice: «Correre per fare, stancarsi per fare, invecchiare senza accorgersi, ammalarsi di tristezza e di solitudine per fare, fare. Io non sono capace di fare, ma posso sorridere incantato dal mistero, posso ringraziare sorpreso dalla gioia, posso pregare».
Una bella lezione da parte del vescovo Delpini per chi sa, o almeno, vuole ascoltare.
L’Istituto Palazzolo
Poi, dopo il prolungato saluto di monsignor Delpini ai malati in chiesa e il passaggio in alcuni reparti, il tradizionale incontro con i vertici della Fondazione, nel quale prende parola il direttore Troisi, richiamando le novità intercorse nel 2025, «come la messa in campo di figure che creano collegamento tra la Fondazione e i reparti e il ruolo del servizio di Psicologia clinica rivolto agli ospiti, ma anche al sostegno dei loro familiari e al personale. O come il board di 10 giovani under 35 che rappresentano tutte le figure professionali presenti nell’Istituto e che fanno in modo che la struttura sia attrattiva per il territorio. Nel 2026 l’obiettivo è di avere rapporti più solidi con tutti gli ospedali del territorio, con l’apertura del reparto di Psicogeriatria e il rinnovo dei locali ambulatoriali».

Anche perché sempre di più il “Palazzolo” è una realtà integrata, con le sue 800 persone accolte ogni giorno e altrettante seguite attraverso le cure palliative domiciliari e l’assistenza che hanno reso la Fondazione Don Gnocchi il player più importante a Milano per i servizi domiciliari.
«Arriviamo dove altri non riescono anche per la dedizione di tutti i nostri collaboratori», ricorda Converti. «Oggi, in Italia, 5,5 mln di persone non si curano e questo ci dice di un disagio sociale che mette in dubbio il diritto stesso alla salute che è sancito dalla nostra Costituzione. È un obbligo per noi andare verso i fragili e più soli. La nostra parola è insieme, lavorare insieme. Come ci ricorda il beato don Carlo Gnocchi, “ogni passo che si fa insieme è un passo verso l’altro”».
Il nostro Natale è mostrare che Dio è vicino
Così per il presidente della Fondazione don Barbante, che citando l’Esortazione apostolica di papa Leone, “Dilexit Te”, scandisce: «In un mondo sempre più chiuso alle ragioni dei singoli, dove prevale l’individualismo, l’obiettivo è quello di non arretrare e di non cedere, perché la Fondazione non è fine a se stessa, ma serve i bisogni della gente. La nostra Fondazione svolge un’attività sussidiaria dello Stato, ma tante volte interveniamo là dove lo Stato proprio non arriva. Questo è il nostro dovere anche come cristiani. I benefattori fanno moltissimo e ci permettono di misurarci con le sfide di oggi, al di là di ciò – veramente poco – che ci riconosce lo Stato. Nel corso di questi anni ci siamo sforzati, non solo di far bene il nostro mestiere e la ricerca, ma anche di costruire cultura per l’edificazione della casa comune. Per noi Natale, è mostrare che il Signore è vicino: questa è la nostra sfida di tutti i giorni, uniti alla Diocesi e alla Chiesa».

Di «un dovere di gratitudine, di stima e di apprezzamento per il lavoro che fa della “Don Gnocchi” un’eccellenza», parla l’Arcivescovo. «La cultura contemporanea, proprio perché marcata da un individualismo radicale, dice che chi può, chi ha le risorse, spende e, quindi, può curarsi. L’idea che ci sia un privato profit che fa della salute, un affare, è un limite del nostro sistema e forse lo Stato e l’organizzazione istituzionale dovranno immaginare dei correttivi per eliminare l’ingiustizia che chi ha soldi si cura e chi non li ha deve arrangiarsi. Il prendersi cura, è una sollecitudine per cui chi si cura degli altri riceve un incremento di umanità: magari potrebbe servire a ragazzi che hanno brutte fantasie e cattivi pensieri venire qui ad aiutare chi soffre».




