L’esperienza dell’incontro con Gesù risorto non «è un congedo, ma una promessa», e permette «di vivere giorni lieti e intensi nell’attesa dello Spirito, nel compimento della nostra umanità e nella fortezza che ci rende testimoni». È la solennità dell’Ascensione e l’Arcivescovo, che presiede in Duomo la celebrazione eucaristica, indica così come interpretare il senso profondo del giorno che ricorda la salita di Gesù al cielo, simboleggiata, per un’antica tradizione della Cattedrale, dal grande cero pasquale elevato alla sommità dell’abside dove rimarrà fino a Pentecoste.

Il rito – documentato già nel XV secolo, epoca a cui risale anche il magnifico candeliere pensile gotico-rinascimentale dorato che porta il cero – si compie durante la proclamazione del Vangelo di Luca 24. La secolare continuità di fede è sottolineata anche dalla seconda edizione del Messale ambrosiano (in vigore dallo scorso 17 novembre), che conferma quello che il Lezionario aveva già stabilito per le comunità di Rito ambrosiano nel 2008, a differenza della scelta operata dalla Cei in ambito romano. Infatti, nonostante la difficoltà di celebrare in una data feriale – il giovedì, così come accade per l’Ascensione e il Corpus Domini – nella Chiesa ambrosiana si è scelto di mantenere il giorno tradizionale, evidenziando il fatto che vi sono feste proprie della vita cristiana che vanno al di là del riconoscimento civile e della convenienza temporale.
Concelebrata dai Canonici del Capitolo metropolitano, la Messa, cui partecipano anche i rappresentanti di Confraternite e Ordini cavallereschi, si fa così occasione per una riflessione che, nell’omelia, diviene quasi un’istantanea del nostro essere cristiani oggi.
Una storia nuova
«Ci sono quelli della nostalgia, che custodiscono la fotografia degli eventi: c’è il rischio di intendere e vivere così anche il mistero dell’Ascensione, dicendo “è salito al cielo, è una storia finita”», spiega monsignor Delpini che subito aggiunge: «Invece, con la Pasqua di Gesù può cominciare una storia nuova, finché arriviamo tutti all’unità della fede, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Dunque, l’Ascensione non è una conclusione, ma un nuovo inizio che rende necessaria la missione».
Ma con quale atteggiamento vivere questo nuovo inizio, si chiede e chiede l’Arcivescovo ai fedeli presenti. Non certo essendo «quelli del ricordo», ma con la speranza fiduciosa «nella promessa che ne invoca il compimento», anche se «nella nostra Chiesa, forse, l’ossessione della programmazione, le preoccupazioni per il futuro delle nostre comunità, la frenesia delle iniziative» non assomigliano molto ai sentimenti di quell’attesa, capace di sconfiggere un’altra convinzione ormai diffusa: «Il pregiudizio demoniaco che Gesù sia una rovina e seguirlo una perdita». «La gente si convince che essere discepoli significa essere meno liberi e meno adatti al mondo in cui viviamo. Essere discepoli è noioso, mentre essere in giro per la terra senza una regola e senza una meta sembra sia più divertente». Eppure, «solo la grazia di Gesù risorto è la rivelazione della meta desiderabile, è l’incontro con il compimento. L’opera dello Spirito è il compimento dell’umano».
E questo anche se – osserva ancora – la missione può apparire sproporzionata: «Effettivamente c’è ragione di pensare che i discepoli siano inadeguati, fragili, ridotti a pochi, che diventiamo sempre di meno. L’ambiente che ci sta intorno è sempre meno disponibile, le persone sono sempre più indifferenti, quindi viene da pensare che sia meglio lasciare perdere e stare tranquilli con coloro che condividono le nostre sensibilità e la nostra fede. Ma Gesù promette una forza che non viene dalla buona volontà, che non programma un’accorta strategia, che non cerca alleanze promettenti utilizzando gli strumenti disponibili», che sono – suggerisce l’Arcivescovo – «tentativi di reagire al senso di sconfitta che talvolta accompagna i discepoli, che si tratti dei social o delle pubblicazioni o di qualsiasi altra forma di comunicazione. La forza, invece, viene dallo Spirito perché è piuttosto affidamento che energia, è docilità piuttosto che protagonismo».




