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In Duomo

Mettere al centro la persona con la mitezza del Signore crea speranza e nuova economia

Per la IV Domenica dell’Avvento ambrosiano, la Celebrazione eucaristica è stata preceduta da un dialogo tra l’Arcivescovo e alcuni operatori sanitari che hanno portato le loro esperienze e testimonianze. «La Chiesa è vicina a chi soffre, incoraggiando chi se ne prende cura»

di Annamaria Braccini

3 Dicembre 2017

«Desideriamo che qualcuno si prenda cura di chi si prende cura».

Le parole con cui don Paolo Fontana, responsabile del Servizio della Pastorale per la Salute, presenta il dialogo informale tra l’Arcivescovo e 3 operatori sanitari, esprimono bene il senso della scelta di invitare specificamente in Duomo, per la IV domenica dell’Avvento ambrosiano, appunto coloro che vivono e si impegnano nel mondo della sanità. Come fa Cinzia Di Pietro, da 18 anni operatore tecnico di assistenza nel reparto di Oncologia medica dell’Ospedale di Sesto San Giovanni.

«Nel rapporto tra operatori e pazienti, è fondamentale l’aspetto umano, il contatto personale. Un sorriso, una chiacchierata, entrano a pieno titolo nella cura del malato. Nel nostro reparto i pazienti arrivano spaventati, le terapie sono pesanti, ma se vi è fiducia, le persone si aprono, raccontano le loro sofferenze e quasi non ci si ricorda più delle cure in corso. La responsabilità di avere ricevuto un dono mi permette di donarlo agli altri».

È la volta di Alberto Giannini, medico presso la Terapia intensiva pediatrica della Clinica De Marchi-Policlinico di Milano, che usa 4 parole: complessità, volto, responsabilità e fiducia.

«All’accelerazione delle conoscenze e degli strumenti del sapere che si stanno ampliando in modo sorprendente, corrisponde un aumento della complessità nei processi decisionali e di cura diretta. Ci sono aspetti molto importanti come la perdita del senso del limite, senza dimenticare le ricadute economiche di tutto questo».

Basti pensare al tema del morire che è ormai fortemente medicalizzato, tanto che, negli Stati Uniti, 1 decesso su 5 avviene in regime di terapia intensiva.

«Emmanuel Levinàs ha scritto che la capacità di riconoscere il volto dell’altro genera in noi una responsabilità nei suoi riguardi. Per questo tale responsabilità va declinata a tutti i livelli, dalla gestione sanitaria a quella politica della locazione delle risorse».

Terzo, la fiducia: «Sono fortemente convinto – conclude Giannini – che il Signore affida a noi l’altro, quindi, ha fiducia in noi. Alla Chiesa che è in Milano chiedo fiducia, non diffidenza verso il mondo della scienza e della medicina; al mio Vescovo chiedo di ricevere non una moltiplicazione di parole, ma la Parola, lampada per i miei passi».

Infine, Laura Alaimo, educatrice presso il Centro Sant’Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio, un istituto che si occupa del disagio mentale di pazienti che hanno commesso reati per la loro patologia o per abuso di sostanze stupefacenti.

«In comunità, i malati accettano un percorso di cura con terapia farmacologica che offre loro stabilità e dignità, iniziando, nella quotidianità, una vita nuova attraverso un’azione di mette in rete medici, psicologi, operatori, famiglie», racconta Alaimo. «Molti hanno pesi grandi, ma anche gioie che condividiamo per un periodo di permanenza media di 18-20 mesi».

Bello anche che ai dipendenti collaboratori laici, i religiosi del Fatebenefratelli, abbiamo chiesto di aiutare in campo religioso e spirituale, seguendo, da questo punto di vista, anche pazienti non credenti e musulmani.

Di fronte a tali testimonianze, monsignor Delpini, osserva: «Questo invito è un modo con cui vorrei esprimere ciò che è sempre stato nella sensibilità della Chiesa: essere vicino a chi soffre, incoraggiando chi si prende cura, come testimonia la parabola del Samaritano. Vorrei dire 3 parole per spiegare la risonanza in me di queste testimonianze».

La prima è “insieme”. «L’attenzione al malato richiede che si stia insieme, perché nessuno si salva da solo. Il sistema della salute ha bisogno di questa sinergia, dell’ascolto reciproco tra i malati, l’amministratore, il gestore, il cappellano, il medico, le famiglie, gli operatori».

«Poi, una parola evangelica – magari poco ricordata, ma necessaria -, “riposo”, perché lo stress di fronte a problemi tanto gravi e alla morte, ci logorano e rischiano di indurci a una corazza di indifferenza».

La terza parola che l’Arcivescovo utilizza è “oltre il confine”. «Un andare oltre che dà la giusta proporzione alle scienze. La scienza non è solo la tecnica, la chimica, la biologia: vi è scienza nella consolazione, nella convivenza, nell’economia e dobbiamo inglobarle tutte in una visione complessiva e umanistica della società».

La Celebrazione eucaristica

​Appena concluso il dialogo in Cattedrale, dove sono riuniti migliaia di fedeli e circa 250 bimbi e ragazzi della Cresima, provenienti con loro preti, genitori, educatori, dalle parrocchie di Mariano Comense, inizia la Messa, concelebrata dai Canonici del Capitolo, da don Fontana con i cappellani delle realtà di cura e dai sacerdoti della Prelatura Santa Croce-Opus Dei che animano la Novena dell’Immacolata in Duomo.

Dalla mitezza dell’ingresso a Gerusalemme del Messia, a dorso di un puledro, narrato nel Vangelo di Marco, prende avvio la riflessione dell’Arcivescovo.

«E se provassimo a costruire la città intorno alla fragilità? E se il proposito fosse di stabilire un trono sulla mansuetudine? ​Se il fondamento del convenire dei molti per l’impresa comune non fosse la volontà di potenza, non la presunzione, che si vanta delle proprie forze e risorse, non l’orgoglio che vuole sfidare il cielo, ma la compassione che si commuove per chi soffre e vuole offrire un conforto, un aiuto, un soccorso? Se le risorse meravigliose dalla scienza che scopre, in ogni angolo del creato, misteri nuovi e la potenza stupefacente della tecnologia, non fossero orientati a moltiplicare i guadagni, ad accumulare tesori, a imporre un dominio, ma a essere l’occhio per il cieco, la stampella per lo zoppo, la voce per il muto?», chiede Delpini, che aggiunge altri interrogativi.

«Se la fierezza che attira ammirazione ed emulazione non consistesse nell’imporsi agli altri, esibendo la propria potenza o le risorse che si possono sperperare? Se gli uomini e le donne fossero fieri, invece, della condivisione del pane, dell’assistenza al malato, della promozione della cultura di tutti, della bellezza regalata alla città, della festa preparata per ogni bambino che nasce? Se chi programma il futuro mettesse in agenda non la costruzione della cittadella dei privilegiati, non il paese dei balocchi per i bambini belli, sani, intelligenti e viziati, non i filtri raffinati per non vedere i malati, i poveri, i morti, ma mettesse in agenda piuttosto la costruzione di luoghi di incontro, di accademie di confronto per avventurarsi in nuove conoscenze, di strutture di condivisione per tessere rapporti e prendersi cura gli uni degli altri? Se il progresso della scienza non fosse governato da chi può pagare per rendere più potenti i potenti, più offensive le armi, più impossibile la pace, ma la scienza riuscisse a leggere, nei suoi algoritmi, l’invocazione per una politica di pace, per una biologia di guarigione, per una economia di solidarietà?».

​La risposta esiste ed è appunto scritta nella mansuetudine di un Dio fatto uomo che va, con semplicità, a morire per salvare. «Se il trono è stabilito sulla mansuetudine, allora chi è malato, chi è anziano, chi ha bisogno di cura e di aiuto, non sarà considerato una spesa che grava sul bilancio dello Stato, ma piuttosto una mano da stringere, un dolore da alleviare, una sfida che la scienza deve raccogliere. Se al centro sta la persona, allora si può inventare una nuova economia».

Così, ancora, davanti a questo trono di gloria e di umiliazione, «lavorare insieme potrà non essere sgomitare per fare carriera, ma un collaborare per una impresa comune che renda più serena la vita di tutti. Se al centro sta la persona, allora si può vivere di speranza».

​Per questo, non bisogna avere paura, pensando «che i prepotenti prevarranno, che i grandi della terra, che decidono i movimenti dei capitali e condizionano i destini dei popoli, rideranno del Signore». Occorre invece – suggerisce l’Arcivescovo -, rispondere «al dubbio, alla sfida, al sospetto di essere perdenti. Noi vorremo essere quelli che dicono che la città è più solida se è costruita su questa mitezza; che il mondo ne ha bisogno; che crediamo più al Signore che alle paure e alle minacce del tiranno. Il popolo che crede nel Signore, che lo segue e ne imita lo stile di mitezza e mansuetudine, vincerà e farà festa perché il regno di Dio viene».

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