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Rubrica

Pastorale digitale

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Riflessione

Il digitale non è un altrove

Il digitale non è un altrove, ma un habitat da abitare con umanità e stile evangelico. Non basta esserci: occorre scegliere come comunicare, con ascolto, intenzionalità e verità.

don Luca FossatiCollaboratore Ufficio Comunicazioni Sociali

29 Maggio 2025
Immagine da Pixabay

Ci illudiamo ancora che il digitale sia una dimensione a parte, un mondo parallelo dove possiamo replicare — magari in versione “social” — ciò che già facciamo nella realtà. Ma il web non è una copia, è un habitat. Un territorio in cui si vive, si sceglie, si ama, si crede. E si comunica.

La vera questione, allora, non è come “andare” sui social, ma come “esserci”. Non basta aprire un profilo parrocchiale, caricare la locandina o fare la diretta della tombolata natalizia. Non è pastorale digitale se ci limitiamo a trasporre contenuti. È pastorale solo se c’è intenzionalità, ascolto, stile evangelico.

Chi pensa che basti pubblicare per “raggiungere” le persone, dimentica che ogni ambiente richiede un linguaggio. E ogni linguaggio racconta un mondo. Se il Vangelo ha saputo diventare narrazione, parabola, gesto, parola scritta e condivisa — perché non dovremmo chiederci oggi quale forma assumere nei feed e nei reel?

Servono nuove domande. Non: “Cosa possiamo postare questa settimana?”, ma: “Chi vogliamo incontrare?”. Non: “Quale immagine farà più like?”, ma: “Quale parola può toccare il cuore?”. E poi: “In quale spazio ci stiamo muovendo?”. Pubblico, privato, personale condiviso: sono confini invisibili ma fondamentali, che chiedono rispetto e discernimento.

Certo, la tecnica serve. Ma non basta. Non insegniamo il Vangelo spiegando come funziona TikTok. Lo testimoniamo comunicando come Cristo: con uno sguardo attento, un silenzio che ascolta, una parola che accoglie. Il digitale ci chiede questo: non abilità, ma umanità.

Per questo, dire che “vale la pena esserci” non è uno slogan, ma un invito esigente. Possiamo restare nel cortile del nostro oratorio aspettando che arrivino i ragazzi. Oppure possiamo uscire. Ma uscire davvero. E imparare a stare negli spazi digitali non per colonizzarli, ma per abitarli. Con discrezione, con rispetto, con verità.

Nel Vangelo, Gesù attraversa strade e villaggi, si ferma a parlare, guarda negli occhi, risponde alle domande. È questo il modello: una presenza incarnata. Anche tra le notifiche.

Allora, il punto non è se il digitale sia buono o cattivo. Il punto è: come lo abitiamo? Quale stile scegliamo? E soprattutto: quale Vangelo raccontiamo — con la nostra voce, ma anche con i nostri silenzi?

La pastorale digitale non è, dunque, una moda. È un’urgenza educativa, una frontiera missionaria. E forse anche una provocazione: siamo ancora capaci di dire qualcosa che conti davvero? O ci accontentiamo di essere condivisi, senza essere compresi?

In fondo, la vera sfida non è solo comunicare di più, ma comunicare meglio. Non “stare connessi”, ma rimanere umani.