Francesco, vescovo di Roma, avvicinandosi al Kotel ha-Ma’aravì, pone le sue orme in quelle di Giovanni Paolo II che nel 2000 compì, per primo, lo storico profetico gesto di infilare un biglietto nelle crepe delle antiche pietre. Il Creatore, manifestandosi sulla scena del mondo, scelse Israele e lo designò popolo eletto, «Noi siamo la memoria di Dio e il cuore dell’umanità» (Elie Wiesel), la Sua Presenza, la Shekinà, riposa su queste pietre, anche se Egli abita in cielo e mai se ne allontana.
Dalla distruzione del Tempio nel 70 d.C., questo muro – dagli occidentali detto Muro del Pianto, perché qui il popolo d’Israele piangeva la distruzione di quel Tempio voluto dall’Altissimo e la conseguente diaspora fuori dai confini della Terra Promessa – non era stato accolto dalla Chiesa per quello che in realtà era ed è: luogo di Dio. Punto in cui cielo e terra convergono per richiamare la persona umana alla sua vocazione, prima di chiamati all’esistenza per lodare il Creatore insieme a tutti i fratelli e le sorelle. Luogo sacro dove l’ebreo prega perché il male venga sconfitto e trionfi il bene: «Esistono uomini con un cuore di pietra, ed esistono pietre con un cuore di carne», affermò rav A.J. Kook.
Fu ed è un segnale forte, ineludibile, di dialogo ebraico-cristiano perché con un solo gesto cancella e crea: cancella uno iato secolare e afferma che per gli ebrei quanto spinge al dialogo è la storia. Solo in essa i cristiani possono porre la loro riflessione teologica, punto su cui insiste Francesco, come sappiamo dall’intervista di rav Skorka. Infatti teologico deve essere il prossimo, urgente, passo.
Francesco compie un gesto squisitamente ebraico, lo accetta, lo fa suo ma non se ne appropria svuotandolo perché vi risuonano le voci supplici dei pellegrini ebrei – il cui numero nei secoli è incalcolabile – che si portarono dinanzi alla Shekinà, per affidare la propria vita, tutto il popolo e tutti i desideri di pace e vita nuova.
È un gesto che simultaneamente risulta duplice:
– cancella l’ideologia della sostituzione che, purtroppo, nei secoli si dimostrò anche una teologia della sostituzione, bandendo dalla storia della salvezza, in nome di Gesù Cristo Salvatore, Israele e la sua missione di salvezza e di annuncio nel mondo;
– afferma, simbolicamente, che nella storia giochiamo la nostra unica esistenza, in cui entrambi ebrei e cristiani camminiamo, volendo conoscerci, stimarci, mentre il dono di Dio e la sua accettazione si espandono e fruttificano e noi nel nostro peregrinare terreno a Lui andiamo.
Teologia e storia così si ritrovano, si uniscono, si concretizzano, dopo la recita del Padre Nostro e una sosta silenziosa, in quel biglietto che, per mano del vescovo di Roma, entra nella fessura che la Shekina accoglie e non rifiuta. Entra nel vivo del divenire di Israele che non si chiude e sbarra l’entrata al luogo sacro, ma sa consegnare a El Rahum, al Signore Misericordioso, quanto è accaduto nei secoli e sa chiedergli di continuare a inviare la Ruach, lo Spirito, che dal solenne momento dell’uscita dal caos con il vibrare della prima luce, aleggia sul mondo creato: una creazione sempre in costante divenire.
Lo iato è colmato. Rimane però ora a noi il grande compito di dare un volto alle relazioni fra Israele e la Chiesa. Chi crede e vive nella presenza della Shekina ha anche un compito preciso: unificare JHWH. Non solo con la preghiera recitata ma proprio con la stessa vita. Unificare infatti vuol dire fare uno: unire timore di JHWH e misericordia di JHWH.
L’anelito dello Shalom autentico, Yitzhak Rabin lo aveva cantato:
Cantate il Canto dell’Amore
e non l’inno di guerra.
Non dite “il giorno verrà…”
Fate che quel giorno venga
perché non è un sogno,
e in tutte le piazza
salutate la pace.
Sul libro d’onore Francesco ha scritto: «Sono venuto a pregare e ho chiesto al Signore la grazia della pace». Il sigillo inedito è stato posto dall’abbraccio di rav Skorka, Francesco e il muftì, figli di Abramo, dinanzi alla Presenza del loro Creatore, al Kotel.