Un gesto più eloquente di tante parole: lungo la strada che lo portava alla piazza della Mangiatoia, Papa Francesco ha fatto fermare la jeep bianca, è sceso, si è avvicinato al muro di separazione israeliano e, poggiandovi la testa, si è raccolto per alcuni minuti in “silenziosa preghiera”. Una sosta “non preparata” davanti quel muro che segna la divisione tra Israele e Betlemme, rendendo la città natale di Gesù una prigione a cielo aperto. Papa Bergoglio ha implorato ancora una volta pace e giustizia per questa terra martoriata.
Poco prima, nel suo discorso al palazzo presidenziale, appena giunto in elicottero dalla Giordania, alla presenza di Abu Mazen, aveva invocato «il coraggio della generosità e della creatività al servizio del bene, il coraggio della pace, che poggia sul riconoscimento da parte di tutti del diritto di due Stati ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti». Senza, tuttavia, mai menzionare quel muro, una lingua di cemento che si incunea per chilometri in territorio palestinese, interrotta “solo” da 23 posti di blocco e 6 check-point. Francesco lo ha voluto toccare, così come ha voluto sentire con mano la sofferenza di un popolo che sin dalle prime luci dell’alba di domenica si era messo in fila per aspettarlo in piazza.
Il clima di festa
Da Nazareth, da Hebron, da Nablus, da Ramallah, da Gerico, da Ramleh migliaia di arabi cristiani sono giunti per ascoltarlo, tra loro molti lavoratori stranieri, dall’Asia, dall’Africa, dall’Europa dell’Est. Sono arrivati anche dall’altra grande prigione a cielo aperto che è Gaza. Ma solo in 24 sui 680 previsti sono riusciti ad arrivare a Betlemme. Bandiere palestinesi si sono fuse al vento con quelle bianco-gialle vaticane, cappellini, sciarpe, magliette con i volti di Abu Mazen e di Papa Francesco, per un tripudio di colori e di festa che nemmeno le rigide misure di sicurezza hanno guastato. I pellegrini hanno preso posto ordinatamente nella piazza, nei settori loro riservati e hanno atteso pregando e cantando l’arrivo del Pontefice accolto da un boato. Cui ha fatto eco un atteggiamento composto per tutta la durata della celebrazione. In silenzio, qualcuno con le lacrime agli occhi, hanno ascoltato il Papa che ha parlato dei bambini come «segno di speranza e di vita».
«Eleviamo insieme una preghiera»
Ma un altro gesto doveva arrivare di lì a poco per dare una sferzata allo stallo diplomatico tra israeliani e palestinesi e rilanciare il processo di pace: una proposta ai presidenti palestinese e israeliano, Abu Mazen e Shimon Peres, «elevare insieme con me un’intensa preghiera invocando da Dio il dono della pace. Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro di preghiera. Costruire la pace è difficile, ma vivere senza pace è un tormento. Tutti gli uomini e le donne di questa Terra e del mondo intero ci chiedono di portare davanti a Dio la loro ardente aspirazione alla pace». Un invito, subito accettato dai due presidenti, che dovrebbe tenersi «in tempi brevi», vista anche la prossima scadenza del mandato di Peres. Gli occhi dei fedeli hanno seguito per tutto il tempo il Pontefice che dal palco pregava per la pace. Sullo sfondo, ben visibile dalla piazza affollata, Har Homa, uno dei 22 insediamenti israeliani che soffocano Betlemme, un’altra ferita aperta nel cuore dei palestinesi.
«Qui non c’è pace»
Pace e occupazione non possono andare d’accordo, hanno testimoniato al Papa i bambini dei campi profughi di Dheisheh, Jibrin e Aida incontrati nel Phoenix Center del campo profughi di Dheisheh, prima di lasciare Betlemme e partire per Gerusalemme, via Tel Aviv. «Nella Bibbia si parla di pace, ma qui non c’è pace. Musulmani e cristiani vivono sotto occupazione – è stato il loro grido -. Soffriamo in questo campo. Noi palestinesi, cristiani e musulmani, non siamo stati creati per essere oppressi ma fratelli. Nonostante l’occupazione siamo ragazzi che non abbiamo perso la speranza. Grazie per il suo sostegno per farci vivere in uno Stato indipendente. Preghiamo per una pace giusta». «Non lasciate mai che il passato vi faccia interrompere la vita, guardate sempre avanti. La violenza non si sconfigge con la violenza, ma con la pace», è stata la risposta di Bergoglio che giunto a Tel Aviv ha rilanciato alla parte israeliana: «Si moltiplichino gli sforzi e le energie allo scopo di giungere a una composizione giusta e duratura dei conflitti che hanno causato tante sofferenze. Supplico quanti sono investiti di responsabilità a non lasciare nulla di intentato per la ricerca di soluzioni eque alle complesse difficoltà, così che Israeliani e Palestinesi possano vivere in pace. Bisogna intraprendere sempre con coraggio e senza stancarsi la via del dialogo, della riconciliazione e della pace. Non ce n’è un’altra. Pertanto rinnovo l’appello che da questo luogo rivolse Benedetto XVI: sia universalmente riconosciuto che lo Stato d’Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto ad una patria sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente». Un messaggio chiaro: «La soluzione di due Stati diventi realtà e non rimanga un sogno».