Nella Basilica di Sant’Ambrogio la seconda catechesi per giovani, con la meditazione del teologo don Cesare Pagazzi che ha affrontato, tra gli altri, i temi della relazione uomo-donna, della testimonianza e del perdono

di Annamaria BRACCINI

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«La nostra identità non può prescindere dalle relazioni che viviamo, ossia dal campo dei rapporti che ognuno coltiva quotidianamente». Don Cesare Pagazzi, teologo e docente della diocesi di Lodi, catechista del secondo appuntamento del ciclo della catechesi diocesana per giovani, parla con un linguaggio semplice, ma dai contenuti profondi. Così avvince i circa quattrocento ragazzi riuniti nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano per quella che lui stesso definisce «una gran bella opportunità».

La serata, alla quale molti partecipano anche da casa e dai gruppi parrocchiali attraverso le dirette streaming, in radio e su twitter, è dedicata al tema “Il campo è il mondo. Relazioni e legami; con chi sono?”. Maria Arduca, studentessa di matematica, aderente al Movimento di Comunione e Liberazione, pone come spinner, a nome di tanti coetanei, interrogativi e provocazioni emerse dal percorso “Varcare la Soglia” e dalla Lettera pastorale: «Cosa è questo umano a cui andiamo incontro e chi viene incontro a noi?», chiede, ponendo tre domande relative ai rapporti più stretti che si vivono, alla relazione uomo-donna e al tema della testimonianza.

«Entriamo in rapporto con “altro” prima ancora che con gli “altri” – chiarisce subito don Pagazzi -. Infatti, la prima relazione che abbiamo è con le cose che ci incoraggiano a vivere e a operare. Questo accostarsi a esse può avere il senso di un rapporto semplice, oppure di una certa durezza, se non di una indisponibilità che esse ci oppongono, dimostrandoci comunque che siamo immersi in un mondo di legami e che “non possiamo fare tutto da soli”. Questo dinamismo è lo stesso che si realizza tra le persone».

Il pensiero è anche per la delusione che, talvolta, si prova nei legami più intensi, quando si nota stanchezza o difficoltà: «Credo – spiega ancora Pagazzi – che affaticarsi nella relazione, non sia un segno di malattia, ma anzi di perfetta salute, perché se una relazione funziona, prima o poi, se ne avverte tutta la pesantezza. C’e un’esperienza fisiologica di frustrazione. Non bisogna dimenticare, come donne e uomini, che le stagioni dei rapporti sono diverse». Insomma, esiste una sorta di «oscillazione del vivente» che ci aiuta a non crederci onnipotenti e perfetti: il riferimento è al diavolo dello splendido romanzo di Lewis Lettere di Berlicche, che vorrebbe portare dalla sua parte il giovane, convincendolo che non vi sia spazio per l’oscillazione dei sentimenti.

«Anche la relazione più riuscita, la meglio raccontata tra un uomo della donna, quella del Cantico dei Cantici, ha i suoi inverni e le sue primavere». Da qui la “regola d’oro”: «Imparare che, ogni tanto, ci si trova in sintonia di desideri e di emozioni, ma quasi sempre ci si cerca». «Attenzione, ragazzi, a non cadere nelle trappole di Berlicche: fare attenzione alle cose, anche nel loro carattere di urto, ci renderebbe meglio pronti ad affrontare l’inverno delle relazioni anche più belle», ammonisce il catechista.

D’altra parte, l’esperienza oggi comune ci dice che si scartano molti oggetti «perché non vale la pena aggiustarli»: così, con facilità, preferiamo sostituire anche le persone. E questo vale naturalmente – se non di più – per la relazione uomo e donna, approfondita attraverso Genesi 2, 24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e saranno una carne sola». «Sembra che questa attrazione verso l’altro sia come una potenza ostetrica che fa nascere. Il bisogno sessuale e affettivo ci lancia una sfida: “Sai diventare il centro di un altro che non siano il padre e la madre, sai fare in modo che l’altro diventi il tuo centro?”. L’attrazione verso l’altra persona è quella che ci tira fuori dal grembo nel quale siamo sempre tentati di rintanarci. La donna, l’uomo che il Signore mi mette al fianco permette che io venga “alla luce”, magari, come succede nella nascita, gridando».

E, ancora, sempre sul filo delle provocazioni, ci si confronta su come comportarsi di fronte a chi non ha incontrato il Signore. Il suggerimento è chiarissimo: «Quando abbiamo davvero incontrato un persona, magari nell’innamoramento, si vede dal “portamento” e cambia il comportamento. La strategia giusta è far trasparire nel nostro portamento l’amore per Gesù. Se il Signore è vicino si vede. Si dovrebbe andare incontro a ogni nostro simile come se fosse buon terreno edificabile dove costruire persone e cose. Ci vuole tempo, fatica, occorre sopportare la resistenza delle cose, l’indisponibilità delle persone, l’inverno delle relazioni, ma spesso, sotto tanti strati di sabbia inaffidabile, troviamo la roccia, il terreno su cui edificare. Agli occhi di Dio ciascuno di noi è la perla più preziosa, quella che vale tutti i prezzi, compreso il sacrificio del suo unico Figlio. Come il Signore intuisce il diamante nascosto anche nel miscuglio argilloso che sporca soltanto le mani, così dovremmo fare noi».

Nella testimonianza di Michela Vaninetti – referente per Como del gruppo “Giovani e Riconciliazione”, le “Vele”, nato dall’esperienza della Gmg 2000 e oggi presente in molte diocesi -, la riflessione si sposta sul senso del perdono, su cui ritorna, dopo un’ultima domanda dei giovani, Pagazzi. Il tema è quello delle relazioni accostato al sacramento della Riconciliazione: «Quando Dio perdona, dimentica, e quando esco dalla Confessione, non sono un “perdonato”, ma un innocente. Non dobbiamo avere vergogna di chiedere perdono a Dio. Cerchiamo di non avere una memoria ossessiva del male che abbiamo ricevuto o dei nostri peccati, perché un simile tipo di memoria toglie la stima di noi stessi e produce altro peccato».

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