Iniziamo il commento a ciascun "articolo" del Decalogo per gli oratori, scritto dal nostro Arcivescovo Mario Delpini, con questo contributo del Vicario episcopale per l'Educazione e la Celebrazione della Fede, don Mario Antonelli. Nelle prossime settimane pubblicheremo gli altri commenti che andranno a supportare il percorso di riflessione sull'oratorio ORATORIO 2020.

Don Mario Antonelli
Vicario episcopale per l'Educazione e la Celebrazione della fede

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Occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò.

San Paolo VI, Ecclesiam suam 90

 

 

Dal Decalogo per gli oratori dell’Arcivescovo Mario Delpini

1. L’oratorio accoglie tutti, per insegnare a tutti la via della vita.

 

Proprio tutti

Già sentito quel “accoglie tutti”; già sentito e non sempre messo in pratica. L’oratorio è la “locanda” dove il buon samaritano porta l’uomo mezzo morto, incontrato e raccolto con compassione e ogni cura divina (cfr. Lc 10,25-37); siamo quelli che accolgono tutti i mezzo morti della storia, delle nostre città e paesi. Tutti, proprio tutti, perché il buon samaritano, Gesù, li cerca, li visita tutti, a tutti si fa prossimo; ma proprio a tutti, lui che sempre batte i sentieri impervi e duri che collegano Gerusalemme, città della santità di Dio, e Gerico, città della profonda depressione dell’uomo e del suo mare di morte. “Locanda”: il termine greco che Luca usa (pandochéion) vuol dire letteralmente “che accoglie tutti”, “dove tutti sono accolti”. Chiederò all’Arcivescovo di emanare un altro dei suoi editti, tanto folli quanto evangelici: che in ogni oratorio, all’ingresso, campeggi l’insegna: PANDOCHÉION. Lui capisce, il greco l’ha insegnato per tanti anni.

Tutti accolti allora, proprio tutti, senza temere nessuno, lasciando cadere dalle mani ogni pietra con cui, per un istinto religioso atavico, saremmo portati a lapidare certe alterità scomode e anche fastidiose; nessuna condanna, nessuna sufficienza nello sguardo, ma anzitutto l’immensa simpatia e il dilatare gli spazi dell’accoglienza. Diremmo, un oratorio “capace di tutti”, capace come un bagagliaio è capace, spazioso, ospitale; dove ciascuno, così com’è, si sente ascoltato, inteso, cercato e amato. L’oratorio accoglie tutti, perché tutti sono stati cercati, visitati, invitati; senza attendere pigramente che il buon samaritano ci porti in “locanda” la dose giornaliera di ragazzi e ragazze. La locanda non è una tana dove appisolarci. Il corpo vivo del buon samaritano Gesù che oggi sale e scende tra Gerico e Gerusalemme siamo noi; noi il suo cuore che freme di compassione, noi i suoi piedi che muovono verso tutti, a partire dai più malmessi, dai più malmenati dai briganti di quelle strade, noi le sue mani che versano unguenti e curano ferite profonde e tamponano emorragie di gioia e di vita.

 

 

Senza puzza sotto il naso

In un oratorio che accoglie tutti, nessuno ha la puzza sotto il naso. Può capitare, certo; come accadde a Pietro, direttore d’oratorio a Cafarnao, poi a Gerusalemme, poi ad Antiochia, e anche a Roma. Grande direttore, però ogni tanto aveva la puzza sotto il naso. Come quella volta a Cesarea, dove era stato invitato a benedire l’insegna “PANDOCHÉION” all’oratorio di là. Ma quel giorno era impacciato, perfino riluttante (cfr. At 9,43-10,33). Pietro aveva la puzza sotto il naso davanti ai pagani che a loro modo cercavano il Signore Gesù e a lui aderivano. Gli dava fastidio che potessero giungere nell’oratorio che tutti accoglie, che potessero voler bene a Gesù senza conoscere le Scritture per filo e per segno come lui, senza mettere in pratica tutte le norme e i precetti che lui osservava. E sì che in quei tempi Pietro abitava a Ioppe, nella casa di Simone, un conciatore di pelli! E riusciva ad avere la puzza sotto il naso davanti a un pagano che, a modo suo, in tutta sincerità e con gioia, voleva aderire al Vangelo! Con quelle sue vesti impregnate di quella puzza della casa del conciatore di pelli, aveva la puzza sotto il naso! L’olezzo della casa del conciatore di pelli, dove anche noi abitiamo, dovrebbe dissuaderci dal guardare con la puzza sotto il naso quanti stanno sulla soglia, o quanti sono stati messi alla porta, o quanti hanno violato i codici dell’appartenenza ecclesiale e della comunione fraterna; perché tutti, anche loro, seguendo percorsi differenti dai nostri, possono venir dietro a Gesù.
Non possiamo dimenticare che i discepoli del Signore prendevano i pani con le mani impure, senza lavarsele; e che Gesù stava e sta a mensa con i peccatori; e che, sotto il sole di mezzogiorno, Gesù non va a rifocillarsi all’ombra di qualche banchetto dei puri, ma se ne sta al pozzo a conversare con la donna di Samaria, con tutto il suo disordine e le sue ferite, le sue fatiche e le sue attese.

 

 

Fare segno, essere segno

Lungo la strade tra Gerusalemme e Gerico, così come dentro la “locanda oratoriana”, quelli dell’oratorio insegnano a tutti la via della vita. Ma la via della vita, per le strade e nella locanda, non è insegnata come si insegna una dottrina da tavolino; né viene proposta infestandola di cartelli stradali che limitano, obbligano e proibiscono. Se è quella della vita, della vita di Dio, la via insegnata non esige; anzitutto dà. E ciò che ciascuno vi trova dovrebbe essere sempre più di ciò che cerca. La via insegnata, tenerezza suprema di Dio, è la tristezza condivisa e vinta, gli odori di morte e solitudine avvolti dal profumo della prossimità gratuita, la fame di gioia saziata e ogni volta risvegliata a tavola con Gesù.

Di questa via l’oratorio fa segno, indicandola, invitando a percorrerla, mostrando a tutti che ogni luogo è buono per partire: la riva di un lago e il margine di una strada, il fiume Giordano e il tavolo delle imposte. Insegnare la via della vita vuol dire accompagnare, curando di non forzare il passo dell’altro; vuol dire proporre un ordine da imparare, dico quell’ordine del Vangelo, che mai mortifica la libertà e l’esuberanza giovanile.

Di questa via l’oratorio è segno. Lo spazio dell’oratorio ha la forma del cammino. Il suo centro non è occupato da miriadi di sedie e tavoli, ma deve restare vuoto, pronto sempre ad accogliere tutti con le loro attese e le loro ferite, la loro bellezza e le loro miserie: segno del grembo ospitale di Dio. Lì, quelli dell’oratorio non stanno come in un recinto tenendosi al riparo dai sospiri e dai sudori di ragazzi e giovani; lì, quelli dell’oratorio mai stanno al riparo dal fuoco della tenerezza del buon samaritano. E con lui e con tutti quanti lui porta alla locanda mai sospendono il cammino verso Gerusalemme: desiderando la santità, non qualcosa di meno.

 

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