Condividiamo alcuni passaggi della riflessione sul brano del Vangelo di Matteo 9,9-13 proposta da don Davide Caldirola ai giovani che si sono riuniti presso la Chiesa di San Carlo Borromeo, a Sesto San Giovanni, in occasione della terza serata (mercoledì 29 novembre 2023) degli Esercizi spirituali di Avvento

Letizia Gualdoni
Servizio per i Giovani e l'Università

EESS Avvento 2023 - Zona VII - Sito

Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. (Mt 9,9)

Sono meno di 30 parole e con queste poche parole, se ci pensiamo, Matteo, scrivendo questo, descrive il momento più importante della sua vita.

«Quando parliamo di noi stessi, a volte, ci sembra di stare parlando dell’argomento più interessante della storia». Ci accompagna, nella meditazione (di cui condividiamo alcune riflessioni) della terza sera degli Esercizi spirituali d’Avvento nella Zona pastorale VII, nella chiesa di San Carlo Borromeo a Sesto San Giovanni, don Davide Caldirola.
Quanto stridono, queste poche parole del Vangelo di Matteo, con l’abitudine, nostra, giusto o sbagliato che sia – ma sempre più pervasiva -, quando parliamo di noi stessi, di far sapere tutto, il minimo spostamento, ogni cosa che facciamo… tra post, foto ecc., quante parole diciamo su di noi! In realtà, per fortuna che impariamo anche a raccontarci! «Ma, qualche volta, che bello avere la capacità di usarne anche meno di parole, di parlarci meno addosso: magari di far crescere la capacità di ascoltare anche l’altro, che ha qualcosa da raccontare, insegnarci».
Pensiamo: quante cose avete imparato già nella vita e quante avete insegnato?
«Sono di più quelle che abbiamo imparato di quelle insegnate, nella vita».
Ci vuole anche il silenzio di chi ascolta.

Nel Vangelo di Matteo scopriamo questo discepolo chiamato da solo, gli altri erano chiamati “a coppia”. Viveva di un mestiere che già evidenzia una certa solitudine di questo personaggio (non aveva, accanto, una comunità che pregava per la sua vocazione, al contrario dei sacerdoti, consacrate ed educatori, insieme ai giovani anche in queste serate di Esercizi): «gli esattori delle tasse erano “carogne”, prendevano soldi dai romani, che comandavano, all’epoca di Gesù, con un potere oppressivo, e sui soldi ci facevano pure la cresta, arricchendosi sulla pelle dei poveri. Quanti amici può avere uno così?». Pochi, forse Matteo era un uomo solo.
Gesù stava formando una piccola comunità e c’era molta attesa per la scelta del quinto: «un particolare importante, stabiliva il numero minimo per una piccola comunità guidata da un maestro». Matteo era un “outsider”, era una scommessa difficile, chi mai avesse osato puntare su di lui avrebbe stravinto, altri erano sicuramente “più gettonati”: «Vuol dire che il nostro Signore Gesù se ne infischia di quelli gettonati. Perché ha scelto me, cosa aveva in mente quando gli è “venuto da scegliermi”? Le scelte di Dio non avvengono secondo criteri umani – bello, intelligente… -: i suoi criteri di chiamata non corrispondono alle nostre attese».
«Gesù vide un uomo»: la prima cosa che Matteo dice di stesso è “un uomo”. «Non si identifica con il suo mestiere – riflette don Davide – alle volte capita anche a un medico, per la fretta, di chiamare un malato con il nome della sua malattia. Rischiamo di dimenticare che una persona non è la sua malattia, il suo peccato: un uomo. Quante volte ci scatta invece l’idea, nella nostra vita, di vedere gli altri con l’etichetta che gli abbiamo “piazzato addosso”: guardiamoci negli occhi come “essere umani”». Forse è la prima volta che Matteo si sente visto come un uomo. «Gesù vede oltre la polvere, la cenere della vita, una vita magari piena di soldi ma disgraziata: vede un uomo, con le sue fragilità, ma soprattutto con le sue potenzialità, con quello di buono e di bello che ancora non è riuscito ad esprimere». Un uomo chiamato Matteo.
Con una sinossi degli altri Vangeli, noteremmo la differenza nella “chiamata di Matteo” nel nome, Marco e Luca parlano della “chiamata di Levi”, in riferimento alle tribù di Israele; i leviti si occupavano di tutto ciò che riguardava il tempio, erano uomini osservanti.
Cosa significa il nostro nome? Cercalo, se ancora non lo hai fatto.
«Matteo, come Mattia, vuol dire “dono di Dio”. Ancora più importante è scoprire che tu sei un uomo e, al di là del servizio che sai fare o non sai fare, del tempio che frequenti o meno, “sei un dono di Dio”».

Matteo è seduto. Anche questo è interessante: pensiamo a cosa significa un letto, luogo del riposo atteso dopo una lunga giornata di lavoro e fatica, ma anche “luogo della dannazione” da cui non ti puoi schiodare in caso di paralisi e malattia. «Per Matteo quello sgabello è il luogo della sua dannazione, appena si alza da dove è seduto a tirar su i soldi qualcuno può fregarlo. Ci sono modi diversi di stare seduti»: quello sul divano, con amici, mangiando una pizza, la sedia di una festa in oratorio o altrove e quel seduti che a un certo punto non riesci più ad alzarti, sei incapace di muoverti. Come il paralitico, a cui Gesù dice “Alzati” e lui si alzò, ritrovando coraggio e dignità. Per tornare sui suoi passi, la voglia persino di fare festa, di fare un banchetto.
«La prima cosa che il Signore fa quando ti dice “Seguimi” non è “mettiti a lavorare”, non è “devi fare questo o quest’altro”, ma la prima cosa che fa quando ha incontrato Gesù, si mette a tavola a mangiare.
Pensiamo sempre che quando incontriamo Gesù lui possa “portarci via qualcosa”… e se invece ci volesse regalare qualcosa? E se ti dicesse: adesso che mi hai incontrato, comincia a fare festa, organizza un banchetto, invita i tuoi amici, non star lì a vedere se sono buoni o cattivi, tu invitali».
Alzati e fai spazio, allora, non essere tenacemente attaccato a quello sgabello che potrebbe essere “dannazione”. E quest’uomo, finalmente, diventa tale, un essere umano, che, da solo com’era, diventa un uomo che ha una casa accogliente, dove tutti cominciano a volergli, improvvisamente, bene (pensiamo anche alla difficoltà ad essere amici).
Matteo racconta il momento originario della sua vita come un momento di grazia, un dono non meritato.

Don Davide, a questo punto, cita un episodio di 30 anni fa, quando, negli anni ‘90, imperversava la guerra civile nell’area balcanica ed era stato a portare i viveri, con i furgoni, insieme ad altri volontari. Mentre consegnava i viveri a donne e bambini, un uomo che era con lui piangeva. Si chiedeva: perché a me? Perché sono io da questa parte, a dare qualcosa, e non dall’altra? Perché sono io che posso dare, oggi, e non prendere, che non ha niente?
Tante volte, quando ci capita qualcosa di male nella vita, ci chiediamo: perché a me?
Magari possiamo chiederlo anche dall’altra parte “perché a me”, quando ci capita qualcosa di inaspettato, che ci cambia la vita: cosa ho fatto per meritarmi un incontro così, un affetto così, una chiamata così, un amore così? Guarda che bello mi è capitato…
La gioia: c’è sempre qualcuno che vuole ammazzare la gioia dell’altro, che non è capace di gioire. Non dobbiamo essere sciocchi come chi ridacchia sempre, far finta di essere sempre gioiosi, abbiamo bisogno di ritrovare davvero la gioia. Saremmo più credibili come cristiani se ci vedessero contenti, con la gioia nel cuore. La gioia ha un contagio buono, e anche solo gioendo così facciamo un servizio agli altri, a noi stessi, al mondo.

Qualche suggerimento, per continuare questo tempo di Avvento, ringraziandoci del cammino fatto, al termine di queste serate di Esercizi spirituali, che si concludono con il dono del Vangelo di Matteo a tutti i giovani: chiudi gli occhi e ricorda un momento della vita, quello che secondo te un po’ ti ha cambiato, che puoi segnare sul calendario, per dire che lì sì, “c’eravamo”, ringrazia e chiediti “perché a me”.
Prega anche per chiedere il dono della gioia, in questi giorni difficili. “Signore, ti consegno quello che sono, mi piacerebbe essere a mio modo, per quello che posso, testimone della gioia”.
Continuiamo a pregare per la nostra Chiesa, le nostre comunità, i nostri oratori, perché non siano come i farisei comunità rigide, poco fantasiose, ma simpatiche, aperte, liete, dove possa essere trasparente la bellezza del dono della chiamata di Dio.

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