Jafar Panahi non è un genio per il cinema, è il suo supereroe. Un regista combattente, più volte messo in carcere dal regime iraniano, costantemente sotto pressione per smettere di fare il suo mestiere, tanto da esser stato costretto più volte a inviare di nascosto i suoi film ai festival, opere ovviamente girate in clandestinità. Difficile pensare a un film sbagliato da Panahi che si riconferma uno dei più grandi registi viventi.
Dopo il bellissimo Gli orsi non esistono, presentato a Venezia, il regista arriva a Cannes con A Simple Accident.
La trama
Il banale incidente del titolo è l’investimento di un animale di notte da parte di un’auto guidata da un uomo. Sul veicolo, con lui, ci sono la moglie incinta e la figlia. Costretto a fermarsi in un’autofficina viene notato da un dipendente che lo riconosce. È un aguzzino del suo passato, l’agente dei servizi segreti che l’aveva torturato in carcere. L’uomo lo segue, lo colpisce e lo rapisce.
Un bravo regista di fronte a questa trama ne farebbe un buon thriller. Un supereroe, ovvero un uomo che non ha paura di esprimere le sue – rischiose – idee attraverso le sue opere, costruisce un film che flirta con i toni da commedia fino a discendere in una potente sequenza finale totalmente bilanciata sul dramma più lancinante. È una riproposizione di dilemmi che appartengono all’uomo dall’alba dei tempi in una nuova chiave politica: come rispondere alla violenza? Torturare chi ti ha torturato o lasciarlo libero con il rischio che muova vendetta? Quale giustizia si può pretendere in un paese ingiusto?
Il dramma isolato
Panahi gioca sull’ambiguità dietro all’incidente scatenante. Di chi è la mano che l’ha originato, si chiedono i protagonisti: Dio, il destino o forse solo la volontà di un regista alla ricerca delle crepe nella morale dei suoi personaggi? A Simple Accident è stato girato senza permessi. Nelle sequenze tra la folla il punto di vista della cinepresa è sempre distante. Le cose succedono a molti metri dall’obiettivo perché Panahi si nasconde nelle automobili che diventano un set portatile, mentre i suoi attori recitano fuori dal finestrino. In tutti gli altri momenti il dramma si svolge isolato: c’è un deserto con un tronco rinsecchito di un albero che richiama ad Aspettando Godot. Ci sono la notte iraniana, le case e le officine, i fari distanti e le piccole finestre. Un film pensato durante la prigionia del suo regista, in cui vengono trasposti i dilemmi che assillano la mente nelle notti più lunghe, insieme al desiderio di sorridere delle sventure da cui sarà difficile liberarsi.


