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il caso

Tavecchio, autogol del buon gusto

La frase razzista pronunciata dal candidato alla presidenza della Figc non ha registrato una reazione unanime di disapprovazione. Segno di un tempo nel quale il calcio sembra essere diventato solo una questione di business. Ma anche l'opinione pubblica italiana pare a dir poco distratta…

di Irene ARGENTIERO Direttrice "Il Segno" (Diocesi Bolzano-Bressanone)

5 Agosto 2014

Domenica 27 aprile 2014. Durante la partita di Liga a Madrigal, il terzino brasiliano del Barcellona si prepara per un calcio d’angolo, quando dagli spalti un tifoso gli lancia una banana. Gesto sprezzante, che si aggiunge agli insulti razzisti che vengono rivolti al giocatore verdeoro. Ma lui non si scompone. Si china, raccoglie quella banana – chiara allusione al mondo del primati – e la mangia. Tra gli applausi dello stadio.

Il video finisce in rete e diventa “virale”, innescando una campagna mediatica che vede vip dello sport e dello spettacolo immortalati a mangiare una banana. Per dare un calcio al razzismo. Per dare un segno chiaro che in campo ci sono persone – non primati! – che si sfidano, correndo per 90 minuti, inseguendo una vittoria.
Quanto accaduto a Dani Alves ha avuto un’eco internazionale, rimbalzando per giorni e giorni tra televisione, social network e giornali.

Venerdì 25 luglio 2014. La Federazione italiana gioco calcio è rimasta senza vertici all’indomani della disfatta degli Azzurri in Brasile e delle dimissioni di Giancarlo Abete. Il candidato alla presidenza Carlo Tavecchio interviene all’assemblea della Lega dilettanti. Nel discorso che segna ufficialmente la sua discesa in campo alla corsa per diventare il numero uno del calcio nazionale, scivola (è proprio il caso di dirlo) su una buccia di banana e pronuncia una frase razzista che subito scuote il mondo del calcio internazionale. La Fifa, fortemente impegnata nella lotta al razzismo, interviene subito e chiede un’inchiesta. 

E in Italia? Mentre le associazioni calciatori e arbitri prendono subito le distanze dalle parole di Tavecchio e da più parti gli si chiede di fare un passo indietro, le Leghe fanno quadrato in difesa del “loro candidato”, cercando di minimizzare parole, presentando come una pioggia primaverile quella che di fatto è una vera e propria bufera.

Tra le fila dei grandi club in questi giorni sono pochi quelli che hanno il coraggio di dire che certe espressioni – per quanto “infelici” e “involontarie” – non devono far parte del linguaggio del presidente della Federazione dello sport più amato e praticato dagli italiani. 

«Quali valori educativi potrà più veicolare il mondo del calcio se il suo massimo dirigente è pronto a calpestare la dignità umana degli atleti? Quale modello di dirigente potrà essere nella lotta al razzismo?», si chiede Edio Costantini, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport.

Ma lui, Tavecchio, non intende fare un passo indietro. A giorni di distanza, in risposta alle tante critiche alle sue parole, chiede scusa e si giustifica («ho fatto un’uscita infelice»), ma non ritira la sua candidatura. Sa di avere l’appoggio dei grandi poteri del calcio e tira dritto, con la protezione dei maggiori club italiani.

Irremovibile anche dopo l’incontro, giovedì scorso, con il presidente del Coni Giovanni Malagò. Lo aveva annunciato alle agenzie di stampa ancor prima di varcare la soglia della sede del Coni: «Vado avanti». Ribadendo così la volontà di portare a termine la sua missione: andare al voto il prossimo 11 agosto. Con una quasi certezza: diventare il prossimo presidente della Figc.

Dal canto suo, anche Malagò – dopo l’incontro fiume di giovedì – condanna fermamente la frase di Tavecchio, definita «inaccettabile per il mondo dello sport» e ribadisce che «non esiste l’ipotesi commissariamento perché le regole sono chiare: è possibile solo se entrambi i candidati si ritirano». In sostanza: la partita è aperta e da qui all’11 agosto c’è spazio sufficiente per qualche mossa a sorpresa.

Il calcio è lo sport più amato e seguito dagli italiani. A tirare calci al pallone s’inizia generalmente da piccoli, se non da piccolissimi. Ed è sul campo di calcio che s’imparano i valori della vita, dalla solidarietà allo spirito di squadra, dal fair play al rispetto dell’altro. Il campo da calcio è una scuola di vita per migliaia di ragazzini. È una palestra in cui si confrontano, prendono le misure con i propri limiti e imparano a stare insieme agli altri. Lo ha ricordato anche Papa Francesco in occasione dell’incontro con il Csi il 7 giugno scorso.

Quanto sta avvenendo in questi giorni alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente della Figc getta un’ombra cupa “sullo sport degli italiani”. E insinua il dubbio che a prevalere sui progetti, sul piano educativo e formativo dei giovani, sull’educazione dei ragazzi ai grandi valori della vita, siano più gli interessi economici e di parte, impegnati principalmente a tutelare se stessi. In questo modo però, lo sguardo rimane fisso ai propri piedi, non al pallone che rotola via lontano. E che finisce per entrare facilmente in una porta vuota.