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Genitori & figli

La casa sia un luogo accogliente: più della struttura contano gli affetti

Se papà e mamma si vogliono bene, non interessa se i locali sono stretti, i mobili d'altri tempi o comprati all'Ikea piuttosto che in uno dei tanti mobilifici della Brianza. Allora si va e si torna volentieri dall'Oratorio o da scuola, perché ci si sente attesi in una casa, che profuma dei sapori della cucina e dell'incanto di papà e mamma, che mettono i figli al centro dei loro affetti, dei loro pensieri

di Vittorio CHIARI Redazione Diocesi

8 Ottobre 2010

Sono andato in crisi, leggendo del disagio di un certo signore, che ha venti ville e non sa dove andare, se ritorna a casa per cessazione attività! In crisi pensando a quanti sono senza casa: giovani che convivono – dicono – perché non hanno soldi per affittarla o acquistarla, non avendo la certezza di pagare un mutuo, essendo precari sul lavoro.

Ad altri, che appartengono a etnie diverse, rom o sinti, non viene data una casa neppure in affitto. Se hanno una roulotte se la prendono loro, sotto un ponte o in un prato, ma se ciò disturba il panorama o il quieto vivere o la pretesa sicurezza di un quartiere, vengono allontanati senza badare a donne e bambini, ad anziani malandati in salute.
Altri ancora ed è nostra gente, padana o no, che vive con una pensione sociale sotto l’incubo dello sfratto, perché non sa come arrivare a fine mese, pur osservando una dieta ristretta nei consumi e negli acquisti.

La casa è il luogo degli affetti! Così la pensano i bambini delle elementari quando scrivono i loro temi o sono invitati a disegnarla a colori. Gli psicologi, analizzando quelli a matita, traggono interpretazioni sul come i bimbi vivono la casa che abitano: se c’è amore, se è chiusa all’esterno, se hanno uno spazio riservato loro, non solo affettivo. Se disegnano un condominio di periferia, forse diventa più difficile l’interpretazione o, forse, più facile perché i condomini non sono costruiti a misura dei bambini e i cortili, con giardino, sono loro proibiti.

È triste sentire il ragazzo che denuncia una situazione di violenza in casa, che nasce dalla ristrettezza degli ambienti. Vincenzo mi diceva che in casa sua dormivano a turno nel letto: «Siamo in tanti, in due stanze!». «Mia mamma, raccontava invece Alberto, quando riceve i clienti, mi manda a dormire sul ballatoio!». Situazioni al limite, al margine, ma anche situazioni di normale disagio quando la promiscuità è obbligata, la convivenza non tiene conto dei bimbi che crescono e diventano adolescenti. Stefy, scappata da casa, si giustificava con i Carabinieri che l’avevano rintracciata con un: «A casa mia, non c’è un posto per me, da quando è arrivata uno zio, che alla sera diventa zia»! E Salvatore: «Le maestre mi sgridano perché sono disordinato nei quaderni! Troppe macchie di “pommarola”, ma a casa il tavolo è uno e serve a tutto!».

Avevo dei ragazzini all’Oratorio che arrivavano al termine della scuola e andavano a casa la sera, il più tardi possibile. Si fermavano volentieri perché c’era più spazio che a casa per fare i compiti e giocare. È uno dei motivi per cui il doposcuola all’Oratorio ha successo: avvicina “i senza casa”, i poveri, gli immigrati o i figli di immigrati. Lasciarli fuori dal cancello o mandarli a casa, per loro, è un castigo pesante.

Durante la guerra, dormivo a letto con mio fratello: uno alla testa, l’altro ai piedi. Non mi lamentavo: erano tempi di sacrifici per tutti, ma sognavo spesso che uno dei miei fratelli si sposasse e avessi un letto solo per me. Oggi non siamo in guerra ma ci sono tanti bambini che sognano un letto per loro, una casa, dove poter tornare e sentirsi a proprio agio, in famiglia.

Chiaro che ciò non dipende solo dalla struttura, ma dal clima che si crea in famiglia: se papà mamma si vogliono bene, non interessa se i locali sono stretti, i mobili d’altri tempi o comprati all’Ikea piuttosto che in uno dei tanti mobilifici della Brianza. Allora si va e si torna volentieri dall’Oratorio o da scuola, perché ci si sente attesi in una casa, che profuma dei sapori della cucina e dell’incanto di papà e mamma, che mettono i figli al centro dei loro affetti, dei loro pensieri.

Quando poi la casa, è di proprietà, i ragazzi, le ragazze dicono con orgoglio: «Torno a casa mia!». Tra i miei ragazzi “barabitt”, ricordo con simpatia e commozione, Cesare. Mamma e fratelli, asmatici, vivevano in una cascina del basso pavese, umida, abbandonata dai proprietari precedenti perché era andata in degrado. Insieme a loro, il nonno alcolizzato. Cesare, un giorno, tornando al Centro, dopo avere assistito all’ennesima scenata violenta del nonno, mi confessava il suo desiderio di andare a lavorare per comprare un appartamento sano per la mamma e il fratellino. Un’impresa che gli sembrava quasi impossibile con i primi stipendi che riceveva, ma, sapendo giocare bene al calcio, acquistato da una squadra di serie C, dopo un anno di attività, mi diceva. «Don, ho un appartamento tutto mio! Ce l’ho fatta! Ho ancora qualcosa da pagare, ma la mamma ora sta bene e anche mio fratello». Avere una casa! È davvero una gran fortuna! Per troppi, rimane un miraggio! Sono andato in crisi, leggendo del disagio di un certo signore, che ha venti ville e non sa dove andare, se ritorna a casa per cessazione attività! In crisi pensando a quanti sono senza casa: giovani che convivono – dicono – perché non hanno soldi per affittarla o acquistarla, non avendo la certezza di pagare un mutuo, essendo precari sul lavoro.Ad altri, che appartengono a etnie diverse, rom o sinti, non viene data una casa neppure in affitto. Se hanno una roulotte se la prendono loro, sotto un ponte o in un prato, ma se ciò disturba il panorama o il quieto vivere o la pretesa sicurezza di un quartiere, vengono allontanati senza badare a donne e bambini, ad anziani malandati in salute.Altri ancora ed è nostra gente, padana o no, che vive con una pensione sociale sotto l’incubo dello sfratto, perché non sa come arrivare a fine mese, pur osservando una dieta ristretta nei consumi e negli acquisti.La casa è il luogo degli affetti! Così la pensano i bambini delle elementari quando scrivono i loro temi o sono invitati a disegnarla a colori. Gli psicologi, analizzando quelli a matita, traggono interpretazioni sul come i bimbi vivono la casa che abitano: se c’è amore, se è chiusa all’esterno, se hanno uno spazio riservato loro, non solo affettivo. Se disegnano un condominio di periferia, forse diventa più difficile l’interpretazione o, forse, più facile perché i condomini non sono costruiti a misura dei bambini e i cortili, con giardino, sono loro proibiti.È triste sentire il ragazzo che denuncia una situazione di violenza in casa, che nasce dalla ristrettezza degli ambienti. Vincenzo mi diceva che in casa sua dormivano a turno nel letto: «Siamo in tanti, in due stanze!». «Mia mamma, raccontava invece Alberto, quando riceve i clienti, mi manda a dormire sul ballatoio!». Situazioni al limite, al margine, ma anche situazioni di normale disagio quando la promiscuità è obbligata, la convivenza non tiene conto dei bimbi che crescono e diventano adolescenti. Stefy, scappata da casa, si giustificava con i Carabinieri che l’avevano rintracciata con un: «A casa mia, non c’è un posto per me, da quando è arrivata uno zio, che alla sera diventa zia»! E Salvatore: «Le maestre mi sgridano perché sono disordinato nei quaderni! Troppe macchie di “pommarola”, ma a casa il tavolo è uno e serve a tutto!».Avevo dei ragazzini all’Oratorio che arrivavano al termine della scuola e andavano a casa la sera, il più tardi possibile. Si fermavano volentieri perché c’era più spazio che a casa per fare i compiti e giocare. È uno dei motivi per cui il doposcuola all’Oratorio ha successo: avvicina “i senza casa”, i poveri, gli immigrati o i figli di immigrati. Lasciarli fuori dal cancello o mandarli a casa, per loro, è un castigo pesante.Durante la guerra, dormivo a letto con mio fratello: uno alla testa, l’altro ai piedi. Non mi lamentavo: erano tempi di sacrifici per tutti, ma sognavo spesso che uno dei miei fratelli si sposasse e avessi un letto solo per me. Oggi non siamo in guerra ma ci sono tanti bambini che sognano un letto per loro, una casa, dove poter tornare e sentirsi a proprio agio, in famiglia.Chiaro che ciò non dipende solo dalla struttura, ma dal clima che si crea in famiglia: se papà mamma si vogliono bene, non interessa se i locali sono stretti, i mobili d’altri tempi o comprati all’Ikea piuttosto che in uno dei tanti mobilifici della Brianza. Allora si va e si torna volentieri dall’Oratorio o da scuola, perché ci si sente attesi in una casa, che profuma dei sapori della cucina e dell’incanto di papà e mamma, che mettono i figli al centro dei loro affetti, dei loro pensieri.Quando poi la casa, è di proprietà, i ragazzi, le ragazze dicono con orgoglio: «Torno a casa mia!». Tra i miei ragazzi “barabitt”, ricordo con simpatia e commozione, Cesare. Mamma e fratelli, asmatici, vivevano in una cascina del basso pavese, umida, abbandonata dai proprietari precedenti perché era andata in degrado. Insieme a loro, il nonno alcolizzato. Cesare, un giorno, tornando al Centro, dopo avere assistito all’ennesima scenata violenta del nonno, mi confessava il suo desiderio di andare a lavorare per comprare un appartamento sano per la mamma e il fratellino. Un’impresa che gli sembrava quasi impossibile con i primi stipendi che riceveva, ma, sapendo giocare bene al calcio, acquistato da una squadra di serie C, dopo un anno di attività, mi diceva. «Don, ho un appartamento tutto mio! Ce l’ho fatta! Ho ancora qualcosa da pagare, ma la mamma ora sta bene e anche mio fratello». Avere una casa! È davvero una gran fortuna! Per troppi, rimane un miraggio!