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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Intervista

Vegezzi: «Ricevo un dono, ma anche una responsabilità»

Il nuovo Vescovo ausiliare: «Anche in questo ruolo spero di essere ancor più d’aiuto all’Arcivescovo con il cuore del pastore come ho sempre cercato di avere»

di Annamaria BRACCINI

10 Maggio 2020
Monsignor Giuseppe Vegezzi

Sì, l’emozione c’è stata, per un annuncio non atteso, arrivato telefonicamente, una mattina di lavoro (seppure in un tempo “diverso” dal consueto come questo) come tante altre. Eppure, qualcosa di molto diverso dal solito è accaduto giovedì 30 aprile scorso. A raccontarlo, con semplicità e un sorriso, è monsignor Giuseppe Vegezzi, vicario episcopale per la Zona pastorale II – Varese, nominato vescovo ausiliare. «L’emozione è arrivata quando ho ricevuto la telefonata del Nunzio apostolico, monsignor Emili Paul Tscherrig. Dapprima abbiamo parlato d’altro, avendomi chiesto la situazione in cui si trovano i preti appartenenti alla Zona in seguito al coronavirus e se vi siano contagiati. Poi, verso la fine di questa chiacchierata vorrei dire “normale”, il Nunzio ha concluso dicendomi che aveva una notizia per me: il Santo Padre mi aveva scelto come vescovo».

Quindi si può dire che la prima emozione sia stata quella della sorpresa?
Certamente. Poi, sono subentrati altri pensieri, il ringraziamento al Signore, al Papa, all’Arcivescovo ed è sorta nel mio intimo anche qualche domanda. Su tutto, indicherei il senso della responsabilità. È vero che Varese ha visto la presenza pastorale di tanti vicari che sono divenuti vescovi – e qualcuno scherzosamente, ogni tanto mi chiedeva quando anche io lo sarei diventato -, ma per quanto mi riguarda, non l’ho mai pensato. Il mio impegno è stato, ed è, fare quello che ho sempre fatto.

Passato il momento iniziale, come si è confrontato a livello personale, con l’idea di entrare a far parte della Successione apostolica?
Sono due le parole che definiscono il mio stato d’animo, anche ora: dono e responsabilità. La nomina è un dono perché non ho fatto niente per meritarla. Ci sono miei colleghi, vicari episcopali, più bravi di me, più intelligenti, con titoli di studio assai prestigiosi. Io, per tutta la mia vita, ho fatto solo il pastore, il parroco in mezzo alla gente. Mi piace dire che faccio parte del clero cosiddetto “badilante”, in tutte le destinazioni pastorali dove sono stato inviato, a Milano prima e poi a Rho, solo per citare le due ultime realtà nelle quali mi sono trovato a operare. E, allora, sento che questo dono mi è stato dato veramente dall’alto. Infatti, mi sono chiesto «Perché a me e non agli altri?», e mi sono risposto «Perché, probabilmente, il Signore mi vuole bene», non trovando altre motivazioni.

E la responsabilità?
Ritengo che sia un elemento fondamentale. Far parte dell’episcopato chiede un impegno ulteriore, una capacità di poter essere rappresentativo di Gesù buon pastore ancora di più rispetto a quando ero un semplice parroco. Come ho già detto, ho sempre cercato di fare quello per cui sono diventato prete, non di fare altro, con responsabilità nei confronti della Chiesa. Una missione che soprattutto in questo tempo di cambiamento e nuovo che ci sta davanti, percepisco con particolare intensità.

Rimarrà vicario episcopale della Zona pastorale II – Varese, con quel ruolo «di grave responsabilità» che già ricopre, come scrive l’Arcivescovo nel suo messaggio per la nomina?
Sì, manterrò lo stesso incarico, con uno sguardo più ampio, perché dal giorno della nomina sono parte dell’episcopato, sia italiano sia di Lombardia. Lunedì scorso mi sono collegato, per la prima volta, in video-conferenza con la Cel e, quindi, si può dire che abbia già iniziato a capire cosa significhi appartenervi e quale ne sia il funzionamento. Sono grato ai vescovi lombardi che, in quell’occasione, mi hanno rivolto il loro augurio. L’impegno rimane sempre il medesimo nella nostra Diocesi di Milano, con il cuore del pastore come ho sempre cercato di avere, sperando di essere di aiuto, ancora di più, al nostro Arcivescovo.

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