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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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La storia

Un «prosit» solidale con la birra biologica

Il progetto realizzato da don Massimo Mapelli anche grazie ai fondi dell’8x1000 presso la “Libera Masseria” di Cisliano, bene confiscato alla 'ndrangheta

di Massimo PAVANELLO

24 Luglio 2018
Don Massimo Mapelli

«Prosit», sussurrava da chierichetto rientrando in sacrestia. «Prosit» è ancora oggi il suo saluto, mentre alza insieme una pinta di birra. Quel bambino è divenuto prete. Lo incontriamo presso la “Libera Masseria” di Cisliano, nel Parco agricolo Sud Milano. È un bene confiscato alla ‘ndrangheta. Questo edificio fa da cornice a tante attività caritative.

Don Massimo Mapelli, davanti a noi, ripete l’augurio. Quasi a confermare, col brindisi, una antica promessa: amare Dio e amare il prossimo, servendo l’uno nell’altro. L’ultimo progetto solidale – del sacerdote ambrosiano – riguarda proprio il luppolo, col quale si aromatizza la birra. La fase di start up è sostenuta pure da 15 mila euro provenienti dai fondi 8×1000. È solo un capitolo della attività condotta dalla “Cooperativa agricola sociale”.

«Il proposito generale – racconta don Mapelli – è dare opportunità: di lavoro per qualcuno, educativa per tutti». La prima sfida pare vinta. Diversi giovani stranieri operano nella agricoltura con contratti trasparenti. La nuova avventura ha garantito un ulteriore posto di lavoro. E un ragazzo, che ha seguito un corso di florovivaista, è stato assunto.

La seconda è in fieri e forse non si concluderà mai. Perché l’educazione è un processo che richiede tempo e sinergie. Lo conferma il nostro sacerdote che, come tutti quelli italiani, riceve sostegno anch’egli dall’8×1000: «Oltre agli impieghi, abbiamo dato vita – insieme con altri soggetti – a una comunità di persone che potessero scegliere “da che parte stare” anche quando si è a tavola. Praticando la giustizia attraverso l’opzione della merce, del venditore e favorendo stili di vita sani».

Per questa opera la Masseria si avvale di una piattaforma – chiamata “Fuori mercato” – attraverso la quale vende i prodotti coltivati in proprio. Chi la frequenta sa che, qui, frutta e verdura sono buone e pagate “il giusto”.

All’interno della rete citata è avvenuto l’incontro con i birrifici artigianali, in specie lombardi. «Ne è seguita così la decisione – racconta don Mapelli – di fare un luppolo biologico sociale. I birrifici si riforniscono quasi esclusivamente negli Stati Uniti ed in Germania. La coltivazione italiana è scarsa. Nella partita è entrata pure l’Università della Tuscia, con la quale abbiamo firmato una convenzione. L’accademia sta elaborando un progetto per gli agricoltori che vogliono coltivare il luppolo biologico italiano. Noi lo faremo sul nostro mezzo ettaro di terra nei pressi della cascina S. Alberto a Rozzano. Diversi birrifici si sono già fatti avanti per acquistare il prodotto, pur sapendo che costerà qualcosa di più a motivo del rispetto per le persone che lo producono. Questa singolare ragione sarà pubblicizzata presso i clienti dei birrifici, come sigillo del generale scopo educativo».

Il costo di tutta l’operazione ammonta a circa 85 mila euro. Somma assorbita quasi completamente dalla fase iniziale, quella in cui si trova ora il progetto.

Affinché il luppolo dia il primo frutto devono passare, infatti, 3 anni. La pianta, per crescere, ha bisogno di un apparato simile a quello della vigna: pali e fili che la sostengano. Con un di più. I piloni devo raggiungere almeno i 6 metri e devono essere garantiti per 25 anni, altezza e durata medie di una pianta di luppolo. In questo campo, gli arbusti messi a dimora sono 1400. «Dal primo raccolto in poi – conclude il sacerdote – prevediamo che il progetto si autosostenga».

Chi volesse affidare a un santo la buona riuscita dell’iniziativa, non si affanni a inventarlo. Esiste già: Arnolfo, patrono dei birrai. Anzi, vigono due tradizioni: vescovo a Metz (582 – 641) o vescovo a Soissons (1040 – 1087).

Del primo si racconta che la sua salma fu traslata dal ritiro monastico sino a Metz. Era estate. Durante la processione, per la calura, i fedeli bussarono all’unica locanda sul percorso. Lì trovarono a disposizione solo una pinta di birra. Per grazia del santo, questa si svuotò solo dopo che tutti ne bevvero.

Il vescovo di Soissons, invece, cominciò a produrre birra – e a distribuirla presso gli abitanti del paese – avendo notato gli effetti benefici della bevanda. Bollita e priva di impurità era più sana dell’acqua dell’epoca. L’iconografia lo rappresenta in abiti vescovili con un pastorale/pala per mescolare la birra.

Un brindisi (e una benedizione), allora, al progetto solidale e salubre in linea con la tradizione di Arnolfo. E pure all’8×1000 che ha concorso a rinforzarlo. «Prosit».