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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Da novembre

Tre «fidei donum» a Cuba in ascolto della gente

La nuova sfida missionaria della Chiesa ambrosiana nella Diocesi di Santiago. I tre sacerdoti sono don Adriano Valagussa, don Ezio Borsani e don Marco Pavan, il più giovane, che dice: «Per prima cosa cercheremo di entrare nella storia di un popolo e di una Chiesa in punta di piedi, con molto rispetto»

di Luisa BOVE

16 Ottobre 2017
Don Marco Pavan

La Diocesi di Milano si apre a una nuova sfida e invia per la prima volta dei missionari fidei donum a Cuba. A partire il 13 novembre saranno don Adriano Valagussa, don Ezio Borsani e don Marco Pavan, il più giovane, ordinato nel 2005, che ha vissuto i suoi primi anni di ministero prima a Vimercate e poi a Legnano. In agosto è andato a Cuba per una settimana insieme a don Adriano: abiteranno a Palma Soriano, mentre don Ezio sarà a Contramaestre, a poco più di 30 chilometri di distanza. «Abbiamo conosciuto il Vescovo che ci ha presentato la Diocesi facendoci entrare nella realtà di Chiesa di Santiago – spiega don Pavan -. Abbiamo anche visitato la parrocchia dove andremo ad abitare».

Come vi siete preparati?
Dal 10 settembre al 15 ottobre siamo stati al Cum di Verona (il Centro unitario per la cooperazione missionaria fra le Chiese, ndr), dove abbiamo avuto la possibilità di capire l’antropologia dell’America Latina, dei Caraibi, la storia che il popolo ha vissuto… La conquista è stata relegata a una lezione, in realtà c’è tanta sofferenza e vicende che si sono trascinate per secoli. Si è parlato anche del significato della Chiesa in America Latina: noi conosciamo davvero poco e rispetto alla stessa Teologia della Liberazione possediamo solo qualche categoria. Iniziare a entrare in questa cultura è stata per me una grazia.

Con quale spirito vi accingete a partire?
La prima cosa che siamo chiamati a fare, e in cui mi ritrovo molto, è quello di ascoltare. Il Vescovo di Santiago ci ha detto: «Il primo anno o anno e mezzo non dovete fare altro che mettervi in ascolto». Non si parte in missione per convertire il mondo o fare chissà cosa, ma si va anzitutto entrando nella storia di un popolo e di una Chiesa in punta di piedi per cercare di camminare con la gente. L’ascolto è l’atteggiamento più rispettoso.

Quando e come è nata in lei l’idea della missionario?
È nata il 4 novembre dell’anno scorso, quando il cardinale Scola, alla fine della celebrazione penitenziale dei preti in Duomo, ha detto che il Vescovo di Santiago di Cuba gli aveva chiesto qualche prete, ma non aveva trovato nessuno disponibile (aveva già lanciato l’appello in altre occasioni); se nessuno si faceva avanti era costretto a dire di no. Il fatto che il Vescovo avesse chiesto una disponibilità e nessuno avesse detto «Ci sto», mi ha impressionato. Allora, tornando a casa, ho scritto subito al segretario dell’Arcivescovo: «Io do la mia disponibilità per questo o per qualsiasi altro incarico di cui avesse bisogno». È stata una disponibilità immediata e questo stupisce per primo me, perché di solito non mi lancio così. L’idea è rimasta e pian piano ho cercato di capire il tipo di disponibilità che avevo dato: che cosa vuol dire partire come missionario fidei donum e cosa vuol dire partire proprio per Cuba.

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