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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Riflessione

Statistiche e parole che curano

Le prime non offrono soluzioni, indicano dove poterle trovare. Le seconde non sono diagnosi finte o false illusioni, ma a volte riescono anche a guarire

di Stefano GUARINELLIDocente del Seminario

30 Marzo 2020

È diffuso l’adagio secondo il quale alle statistiche si fa dire ciò che si vuole. A quel punto, è giocoforza che si strumentalizzino e che gli stessi numeri affermino una cosa per alcuni e una diversa, e perfino contraria, per altri.

Chi sostiene che le statistiche siano manipolabili, dice una cosa possibilmente vera. Non è improbabile, tuttavia, che colui che afferma una cosa del genere, o non conosca la Statistica e come funzioni, o semplicemente stia banalizzando.

La scienza dell’emergenza

La Statistica è una scienza che affianca, o sostituisce, o si premura di validare i modelli interpretativi quando questi ultimi si rivelano inadatti o incompleti a leggere un fenomeno o più fenomeni correlati. Da ciò, mi verrebbe da dire che la Statistica è la scienza delle situazioni enigmatiche, o di emergenza. Il che vuol dire anche che non indossa il camice bianco (da asettico laboratorio) delle teorie dalla formulazione rigorosa a cui la realtà sembra magicamente adeguarsi. La Statistica porta la tuta da lavoro e, se occorre, pure i guanti e il casco di protezione. Fa quello che riesce a fare. E niente di più.

La Statistica deve semplicemente aiutarci a individuare il passo successivo da compiere, la questione da indagare, l’anello mancante. Serve da apripista; non ha la pretesa di giungere alle conclusioni. La Statistica non ha la soluzione; suggerisce piuttosto da che parte andare per trovarla. Rispetto a un viaggio, la Statistica sarebbe la segnaletica; non la meta. La segnaletica esige di suo un’interpretazione e una decisione, perché andare di qua può essere più breve, ma la strada potrebbe essere dissestata; andare di là può essere più dispendioso, ma il paesaggio potrebbe meritare la spesa; e così via.

Manipola, invece, colui che, non conoscendo la Statistica e la sua funzione, scambia, appunto, il cartello segnaletico per la destinazione. Ovvio che sono cose diverse. E rimanendo alla lettera dell’esempio, chiunque lo capisce. Eppure, sarebbe sufficiente ascoltare un qualunque dibattito televisivo successivo a una tornata elettorale, per rendersi conto di quanto quella distinzione sia clamorosamente ignorata. I risultati relativi a ciascuno schieramento sono diversi, ma è raro che qualcuno riconosca di avere perso. Eppure, di numeri si tratta, vero? E se due numeri non sono uguali, allora sicuramente uno sarà maggiore dell’altro, vero? Ecco, appunto, pare di no.

Vulnerabilità della statistica

Come scienza degli enigmi e dell’emergenza, la Statistica ha tre caratteristiche che la rendono vulnerabile. E sarebbe meglio averle presenti, anche di questi tempi.

In primo luogo, ogni statistica presuppone la scelta delle variabili da misurare. Certo, noi vorremmo sapere se il contagio stia regredendo. Dunque, sembrerebbe logico scegliere come variabile il numero dei contagiati, giorno per giorno. In effetti è assolutamente logico, ma nel corso della situazione che stiamo vivendo ormai da diverse settimane, è aumentato anche il numero degli esami obiettivi (i cosiddetti tamponi). L’incremento/diminuzione del numero dei contagi, dunque, è una variabile sicuramente importante, ma pur sempre «spuria». È condizionata, infatti, da un’altra variabile: il numero di tamponi eseguiti. In altre parole: sono aumentati (o diminuiti) i contagiati o i «diagnosticati»? Non è detto che i due gruppi coincidano e pare infatti che non coincidano.

In secondo luogo, ogni statistica esige l’individuazione di un campione, cioè di un sottoinsieme che viene sottoposto all’indagine e che si presume si comporti come l’insieme complessivo che vuole essere indagato. Quando si giunge ad affermare che un programma televisivo è stato visto da dieci milioni di persone, ovviamente non si intende sostenere che siano stati intervistati sessanta milioni di italiani e che uno su sei abbia risposto di aver visto quel programma. Il cosiddetto share è calcolato su un campione di popolazione molto limitato, ma, nell’intenzione della società che si occupa di rilevare il dato, sufficientemente rappresentativo di tutta la popolazione nazionale. Nella nostra situazione, in realtà, potrebbe essere in atto una campionatura differente ed estesa a tutto il territorio. Anche in questo caso, tuttavia, il dato, pur apparendo maggiormente obiettivo rispetto a quello ottenuto a partire da un campione circoscritto, risulta ugualmente «spurio». Il contagio, infatti, non procede allo stesso modo nelle diverse zone del nostro territorio, perché un gruppo unico di contagiati ha un rischio di sviluppare ulteriori contagi, maggiore di quello di una popolazione di identica numerosità ma divisa in gruppi più piccoli. Un gruppo di centomila persone concentrate in un’unica città «non funziona» come venti cittadine di cinquemila abitanti sparse sul territorio. A quel punto, la «media» rischia di essere non rappresentativa della realtà.

In terzo luogo, occorre evidenziare che la Statistica «fotografa» un sistema dinamico nella sua condizione attuale, ma cercando anche di fare previsioni sul suo andamento nel tempo. A partire dal passato e dal presente di un sistema, si cerca di capire come quel sistema evolverà in futuro. Approccio corretto e ineccepibile. Eppure, i «meccanismi» di un contagio non dipendono solo dal virus che si trasmette, ma dal sistema immunitario di colui che con quel virus viene a contatto. Il sistema immunitario reagisce non solo a partire dalle proprie caratteristiche iniziali, ma anche dalle informazioni che riceve. Perché noi, gli esseri umani, in questo siamo veramente unici: le informazioni possono rafforzare il sistema immunitario, oppure indebolirlo. Nei contesti della malattia, non è raro che si dica che il paziente ha il diritto di conoscere ciò che ha. Il che è vero, ma a patto che sia chiaro l’obiettivo di quella comunicazione: la diagnosi non può essere il fine; obiettivo finale è la guarigione e, nel caso questa fosse impossibile, almeno la cura. Una diagnosi che non sia nemmeno un po’ «terapeutica» può inchiodare il paziente alla propria condizione di patologia, finendo paradossalmente per favorirla. Questo non significa nemmeno che al paziente, allora, si deve mentire o che lo si deve illudere. Significa che la comunicazione di una diagnosi è un’arte complessa che esige molte attenzioni, affinché, in piccola o grande misura, sia parte della cura e non invece ciò che finisce per ostacolarla.

Dire e ascoltare

In questi tempi, il contagio potrebbe propagarsi di meno anche grazie alle parole buone che sappiamo dire e ascoltare. Le parole che curano, non sono le diagnosi finte o le false illusioni. Queste e quelle vengono presto smascherate e sono doppiamente dannose: gettano nello sconforto e fanno perdere di credibilità coloro che le avevano espresse.

Le parole che curano sono quelle di coloro che, soprattutto a partire dal ruolo pubblico che rivestono (politico, economico, spirituale), non usano le diagnosi per fare polemica, per accusare qualcuno o per rinfacciare a qualcun altro le sue responsabilità. Queste ultime sono informazioni possibilmente vere, le quali, tuttavia, possono alzare pericolosamente i livelli di ansia per molte persone già preoccupate, abbassando l’efficacia dei loro sistemi immunitari. Se un medico ha qualcosa da dire sulle terapie sbagliate prescritte da un altro medico prima di lui, si guarderà bene dal comunicarlo al paziente, soprattutto quando questi è «a mollo» nella malattia. Eventualmente ne parlerà e si confronterà con l’altro medico. Stupisce che alcuni politici, ma anche intellettuali, medici, perfino vescovi e sacerdoti, riversino troppo disinvoltamente le proprie diagnosi (che non di rado sono atti di accusa) sui mezzi di comunicazione, i quali, ovviamente, le rovesceranno sulla gente, cioè sui «pazienti». Coloro che a livelli diversi godono di una certa visibilità, non potrebbero più fruttuosamente e rispettosamente cercare un confronto diretto con gli addetti ai lavori? A partire dalla posizione sociale di alcuni, non basterebbero due righe in privato o un colpo di telefono?

A che serve avere avuto ragione, se alla fine la malattia avrà perfino accelerato?

Le parole buone curano. A volte riescono perfino a guarire.