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Anniversario

«Populorum progressio», quando Paolo VI fece suo il grido dei poveri

A 39 anni dalla morte (6 agosto 1978), ricordiamo papa Montini parlando dell’enciclica di cui quest’anno ricorre il 50° della pubblicazione. Un documento che dava voce agli auspici di giustizia sociale e sviluppo solidale del Pontefice, alla ricerca di un vero umanesimo planetario e nel quadro della «civiltà dell’amore»

di Marco RONCALLI

1 Agosto 2017

La promozione della pace e della giustizia internazionale, attraverso il dialogo, ha costituito, accanto alla difesa delle verità del dogma e della disciplina della Chiesa, un aspetto importante del pontificato di Paolo VI. Nello spirito del Vaticano II, era il modello di una Chiesa al servizio dell’uomo e solidale con i problemi dei popoli, a farsi largo.

Ecco perché, fissato il quadro generale nell’enciclica Ecclesiam suam (1964), nel marzo del 1967, cinquant’anni fa, papa Montini arrivava a fissare gli obiettivi del suo dialogo in un altro testo magisteriale innovatore: l’enciclica Populorum progressio. Annunciata già nell’ottobre del 1966 dallo stesso Pontefice – premuroso di sottolineare che non sarebbe stata «un trattato», bensì una lettera al fine di «orientare risolutamente sia la Chiesa che l’opinione pubblica del mondo verso le tesi sviluppate in essa» -, resa nota il 28 marzo 1967, ma datata due giorni prima, giorno di Pasqua per i cattolici (per l’economista François Perroux fu «l’enciclica della Risurrezione»), Populorum progressio costituiva l’esito di una lunga gestazione.

Citate le fonti non magisteriali

Secondo diverse testimonianze, già nel 1963, subito dopo l’elezione, papa Montini aveva aperto un dossier intitolato «Sullo sviluppo economico, sociale, morale. Materiale di studio per un’enciclica sui principi morali dello sviluppo umano». Da qui, con la consultazione di diversi esperti – tra i quali, in particolare, il domenicano Louis-Joseph Lebret, già perito al Concilio e collaboratore nella Gaudium et spes (ma Paolo VI, secondo uno stile inedito, citerà espressamente le fonti non magisteriali considerate: Maritain, Chenu, De Lubac, Von Nell-Breuning, Zundel, Colin Clark…) -, ecco la stesura in sette bozze successive. Tutte annotate dal Papa: la prima nel settembre del 1964, l’ultima nel febbraio del 1967, mese in cui, il 20, avvenne l’approvazione definitiva.

Difficile in questo spazio tentare una sintesi esauriente, considerati i tanti punti toccati. A partire dalle disparità fra «popoli ricchi» e «poveri» causate dalla velocità dell’economia moderna, per giungere alla richiesta di un «umanesimo plenario» delineato come «sviluppo integrale dell’uomo» e «sviluppo solidale dell’umanità». E non senza denunce circa la «ricerca esclusiva dell’avere» a scapito della «crescita dell’essere», le «speculazioni egoiste», il «liberalismo senza freno», il «neocolonialismo», la persistenza di ostacoli come il «nazionalismo» e il «razzismo» sulla strada verso «un mondo più giusto».

Proprietà privata e insurrezioni rivoluzionarie

Tra i passaggi più importanti certamente quello sulla proprietà privata. Categorica l’affermazione: «La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno». Come pure il passaggio sulle tentazioni dell’«insurrezione rivoluzionaria», facilmente sperimentabili in popolazioni costrette a vivere «in uno stato di dipendenza tale da impedire loro qualsiasi iniziativa e responsabilità». «Ma anche l’insurrezione rivoluzionaria – tranne nel caso di una tirannia evidente e prolungata da attentare gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuocere in modo pericoloso al bene comune del Paese – è fonte di nuove ingiustizia», osserva l’enciclica, prima di richiamare il bisogno di un umanesimo plenario aperto all’Assoluto.

Nella seconda parte Populorum progressio chiede poi alla Chiesa e alla Comunità internazionale una solidarietà concreta per debellare la fame, affidata anche alla costituzione di un fondo mondiale, alimentato dai tagli alle spese militari; affronta il tema delle iniquità nelle relazioni commerciali; addita i doveri connessi all’ospitalità citando i «lavoratori emigrati che vivono spesso in condizioni disumane, costretti a spendere il proprio salario per alleviare un po’ le famiglie rimaste nella miseria sul suolo natale». Parole che parlano al nostro tempo.

L’economia al servizio dell’uomo

Nella conclusione, altre parole profetiche: «Il nuovo nome della pace è lo sviluppo». Poi un’esortazione perentoria: «Voi tutti che avete inteso l’appello dei popoli sofferenti, voi tutti che lavorate per rispondervi, voi siate gli apostoli del buono e vero sviluppo, che non è la ricchezza egoistica e amata per se stessa, ma l’economia a servizio dell’uomo, il pane quotidiano distribuito a tutti come sorgente di fraternità e segno della Provvidenza». Erano le preoccupazioni di un Papa a cui giustizia sociale, pace, emancipazione, stavano davvero a cuore, nel quadro di «una civiltà dell’amore».

Non tutti compresero il grido di dolore dei poveri che Paolo VI aveva fatto suo. Le reazioni, specie dagli ambienti finanziari, furono dure: tanta utopia e analisi con scarsi fondamenti. Critiche arrivarono dal presidente della Banca Mondiale Robert McNamara e dagli ambienti cattolici più conservatori. Giudizi positivi arrivarono da Unesco e Onu.

Abbastanza unanimi, almeno di facciata, le gerarchie ecclesiastiche, anche se autorevoli esponenti in privato avevano giudicato irrealistiche le attese di Montini. Il 27 marzo 1968, nel primo anniversario dell’enciclica, non dimentico di quelle reazioni, il Pontefice affermava: «È la religione che offre fondamento di giustizia alle rivendicazioni dei non abbienti, quando ricorda che tutti gli uomini sono figli d’uno stesso Padre […]. Potevamo noi tacere, se così stanno le cose? Non potevamo. E perciò abbiamo parlato».