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Intervista

Pellai: «In famiglia saper accogliere l’errore dell’altro»

Lo psicoterapeuta sul dialogo tra coppie e tra genitori e figli: «Occorre imparare a gestire i conflitti e capire che crescere vuol dire anche sbagliare. I mesi di lockdown hanno rafforzato i legami tra adulti e giovani»

di Annamaria BRACCINI

21 Febbraio 2021

Tempo di Quaresima, tempo anche di riconciliazione e naturalmente di penitenza. Nella concretezza delle dinamiche genitori-figli, così difficili oggi, come si può realizzare un dialogo che non sia sentito solo come un’imposizione di autorevolezza? Alberto Pellai, medico psicoterapeuta, profondo conoscitore di questi temi – il suo più recente volume si intitola La vita s’impara. 50 meditazioni per una vita nuova (De Agostini Editore) -, osserva. «È fondamentale far capire ai genitori che crescere vuole dire fare anche errori. Questa è una prospettiva che l’adulto deve sempre assumere verso chi sta crescendo, mentre di solito una delle fatiche più grandi che si sviluppano in famiglia riguarda proprio il momento dello sbaglio».

Cioè?
Quando gli errori dei figli scatenano la rabbia dei genitori, si arriva alle urla, alla disapprovazione, spesso anche all’umiliazione dei ragazzi, considerati “sbagliati” dai genitori. Il problema è che non si tratta di aver fatto uno sbaglio, ma che tutto diventa sbagliato. Gli adulti, spesso, invece che sottolineare l’errore, evidenziano che la persona diventa inaffidabile. Frasi come «Di te non ci si può fidare» o «Sei il solito idiota» sono devastanti. In altri casi, l’errore del figlio diventa causa di sofferenza nel genitore, che dovrebbe al contrario rimanere un “allenatore” che guarda con attenzione la crescita del proprio figlio, intercetta l’errore e si rende sempre disponibile a stare al suo fianco.

E quando nel rapporto si arriva addirittura ad allontanarsi?
I silenzi, e poi il distanziamento, sono errori molto grandi che confondono il figlio, perché quei “musi lunghi” che durano giorni non permettono di entrare nella zona dell’alleanza, mentre per chi cresce è cruciale sentire l’alleanza dell’adulto che non fa sconti, ma che, allo stesso tempo, aiuta a capire e a fare meglio.

Assistiamo a un disorientamento dei ragazzi per l’emergenza educativa. Lei ritiene che questo, anche nel lungo periodo, avrà ricadute pesanti all’interno delle famiglie?
In famiglie che avevano già una loro solidità, una loro forza, un loro equilibrio, questo tempo è stato di sicuro faticoso, ma ha anche rafforzato, su molti fronti, i legami familiari. La famiglia, in questi casi, è un nucleo solido di resistenza, di resilienza, di affronto delle difficoltà; un luogo dove si è diventati decisamente più “familiari”, si è speso più tempo insieme, si sono vissute più esperienze, si è rafforzato il dialogo di fronte alla sofferenza dei figli.

Questo “soffrire insieme” può avvicinare i ragazzi ai genitori?
Li ha avvicinati di sicuro perché gli adulti sono diventati coloro che hanno dovuto sostenerli, nutrirli, orientarli, motivarli, strutturarli in un tempo che è così carente, in particolare per i preadolescenti e gli adolescenti. Questo lavoro, in momenti normali, viene svolto dalle agenzie del territorio, mentre gli adulti sono fuori casa: molto dell’educazione, infatti, avviene “fuori”. Nei mesi in cui il fuori è stato così desertificato, molti genitori hanno provato a riproporsi in una nuova versione del loro ruolo; le ricerche ci dicono che si è potenziata la dimensione della co-genitorialità, rafforzandosi il ruolo e la funzione paterna. Insomma, i padri sono diventati più presenti, più coinvolti, più disponibili.

I cammini di perdono nella coppia sono ancora sentiti o prevale la conflittualità?
Uno degli elementi cruciali per riuscire a rimanere coppie stabili nel medio e nel lungo termine – che si preveda la genitorialità o meno – implica imparare a gestire il conflitto e a sintonizzarsi reciprocamente nell’esperienza dell’accoglienza dell’errore dell’altro in termini anche pedagogici. Non può esservi una coppia stabile senza l’esperienza del conflitto e della riconciliazione e, paradossalmente, spesso i terapeuti vedono coppie che chiedono la separazione perché non hanno mai agito un conflitto in modo sano, recintandolo nel non detto, nel silenzio, nel non risolto, in una sorta di ruminazione, dove il tema della distanza, della divergenza, è rimasto non affrontato.

 

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