Ci sono tanti modi, in Colombia, per essere vittime di un conflitto che ha insanguinato il Paese per oltre mezzo secolo, causando circa 250mila morti e il desplaziamento di 7 milioni di profughi. Ma c’è un solo modo, anche se faticoso, per uscire definitivamente da questa eterna guerra: quello di lasciare spazio alla riconciliazione.
È il messaggio che si appresta a portare papa Francesco, nel corso della sua visita, dal 6 al 10 settembre.
Fa notare padre Francesco De Roux, gesuita, direttore del centro “Fe y Cultura”, da decenni una delle figure più impegnate per promuovere la pace in Colombia: «Le Farc non torneranno a sparare. Per loro questa è una scelta definitiva. Il vero problema oggi è un altro: il trauma esistente nella società, una rottura molto profonda tra noi colombiani, frutto di una crisi spirituale e umana, molto seria. Per superarla ci vorrà tempo. Questo problema non lo può ovviamente risolvere il Papa, ma è molto importante che faccia il primo passo con noi, come dice il felice slogan della visita».
Ci sono tanti modi di essere “vittima”, in Colombia. Alcuni testimoni spiegano cosa significhi per loro fare passi di riconciliazione.
Danilo Conta, di origini trentine, è stato rapito nel 1996 dalle Farc e per sei mesi è stato loro prigioniero nel sud del dipartimento di Antioquia. All’epoca era un ristoratore affermato, con un’attività a Bogotá e una fattoria comprata da poco nel dipartimento del Caldas, alle pendici della cordigliera centrale. «Proprio lì 12 persone armate vennero a prelevarmi», racconta. E aggiunge: «Quello della pace è un cammino giusto e necessario. Certo, mi piacerebbe che, mentre alle Farc è garantito l’accesso in Parlamento, si tenesse maggior conto delle vittime. Per me le prime sono state proprio quei tanti bambini e ragazzi costretti ad imbracciare il fucile. Quando sono stato rapito il più grande tra loro avrà avuto 16 anni».
Ragazzi come William, 22 anni e due occhi vivacissimi, un tempo impauriti e oggi pieni di speranza. Oggi è un operatore presso la Ciudad Don Bosco di Medellín, che è gestita dai salesiane e grazie alla quale sono stati reinseriti socialmente circa 2.500 bambini soldato fuggiti o catturati dall’esercito, i cosiddetti desvinculados. Tra questi, c’è anche William. Aveva 13 anni quando è entrato nella guerriglia: «I capi avevano il controllo del territorio, ci radunavano, lo Stato era lontano, la mia famiglia era molto povera e non avevo la possibilità di studiare. Ho visto qualsiasi tipo di violenza». Dopo quattro anni è riuscito a fuggire ed è approdato alla Ciudad Don Bosco. «È stata la mia salvezza, una tappa fondamentale».
William crede che l’accordo di pace sia una grande possibilità per il Paese: «Recentemente ho visto il mio ex capo della guerriglia, all’inizio non mi aveva riconosciuto. Continuava a chiedermi scusa, io l’ho perdonato, e abbiamo pianto insieme».
Ora William lavora dentro la Ciudad Don Bosco, con i ragazzi che seguono il percorso che lui ha già fatto. E il 9 settembre sarà a Medellín alla Messa di papa Francesco: «Il Papa ci convoca per chiederci di credere nel nostro cambiamento, è un momento storico».
Pochi di più, rispetto a William, sono gli anni di Kelly Fernanda Hincapie Marroquín. Laureata in Legge ed esperta in diritti umani, vive oggi a Bogotá, ma proviene da uno dei dipartimenti dove il conflitto ha fatto più vittime, il Caquetá, zona amazzonica nel sudest del Paese. Nel 1993, quando aveva due anni, le Farc hanno ucciso il papà. Per anni ha assistito alle scorribande della guerriglia, e poi a quelle dei paramilitari: «C’erano morti ogni giorno, negli anni della presidenza Uribe ci fu un’ondata di violenza impressionante. Esercito e guerriglia si fronteggiavano in mezzo alla gente, non sapevamo dove scappare, correvamo da una stanza all’altra». In questi anni la giovane ha maturato una convinzione: il futuro della Colombia nasce dalla vita quotidiana: «Tutti i colombiani devono contribuire con il loro piccolo granello, la pace parte della famiglia. Perdonare è necessario, anche se l’accordo ha dato troppe garanzie agli ex guerriglieri».
In questi anni anche la Chiesa si è trovata ad essere “vittima”, soprattutto nelle zone più periferiche del Paese. Come l’Arauca, negli splendidi e sterminati llanos orientali, ai confini con il Venezuela. Qui nel 1989 è stato rapito e assassinato dall’Eln il vescovo Jesús Jaramillo Monsalve, che sarà beatificato dal Papa l’8 settembre. Intanto, tutta la Chiesa di Arauca è stata riconosciuta “Soggetto di riparazione collettiva” dall’Ufficio nazionale per le vittime.
Padre José Maria Bolívar, vicario generale della Diocesi di Arauca, dichiara: «La nostra Chiesa è stata profondamente segnata dal conflitto armato. Oltre al vescovo, sono stati uccisi altri quattro sacerdoti… altri hanno dovuto fuggire. Tutti noi, per anni, abbiamo avuto paura. La terra di Arauca ha sperimentato tutte le forme di violenza armata». Ora, prosegue il vicario generale, «la gioia spirituale per la beatificazione di monsignor Jaramillo porta come frutto un grande desiderio di riconciliazione. Va creato un nuovo tessuto umano, bisogna ricreare rapporti fraterni. Di fronte a questo compito monsignor Jaramillo si leva come una bandiera».