«Ho dei ricordi personali, ma nel contesto più ampio della fede condivisa, del cammino ecclesiale, oltreché dell’ascolto». Monsignor Giuseppe Merisi, che ha conosciuto personalmente san Giovanni Paolo II – che lo nominò vescovo nel 1995 con il ruolo di ausiliare di Milano, mentre 10 anni dopo fu Benedetto XVI a sceglierlo come pastore della Diocesi di Lodi, di cui dal 2014 è vescovo emerito – ha una memoria viva dei suoi diversi incontri con il Pontefice scomparso 20 anni fa. Un ricordo che, però, all’aspetto personale privilegia quello del grande carisma che Giovanni Paolo II trasmetteva immediatamente ai suoi interlocutori e che rimane oggi la cifra del suo Pontificato così eccezionale per monsignor Merisi, che per la sua profonda conoscenza e sensibilità dei contesti più complessi della società, ha ricoperto anche gli incarichi di presidente di Caritas ambrosiana e Caritas italiana.
Quando ha incontrato il Papa?
A Milano ricordo l’occasione della sua visita per il XX Congresso Eucaristico Nazionale nel maggio 1983 e l’anno successivo per i 400 anni dalla morte di san Carlo Borromeo. Poi ci sono stati diversi incontri a Roma, con i vescovi lombardi e con la Cei. Tra questi uno l’ho in mente in modo particolare per la presenza dei miei familiari e della mia mamma: fu molto accogliente, come del resto in tutte le occasioni. Quando ero con i vescovi italiani, avevamo qualche dialogo personale: ci chiedeva quale fosse il nostro compito specifico, come andava. Si interessava, insomma. Ho avuto modo di vederlo anche durante qualche pellegrinaggio e ho sempre colto in lui, come tanti altri credenti italiani, la presenza viva della testimonianza, della sua parola d’incoraggiamento per gli impegni di ciascuno e per le necessità nella Chiesa. Era animato da un’ansia missionaria e, insieme, dall’ispirazione spirituale per la guida e il cammino della Chiesa. Il suo disegno nasceva da una considerazione ovviamente epocale, legata al momento in cui si vive, ma con la necessità della proposta, con la comunicazione con la fede, con la testimonianza, con il confronto con il mondo. I suoi viaggi, vicini e lontani, sono diventati, per me come per tutti noi, occasione di educazione personale.
Quali erano le peculiarità che più la colpivano in papa Wojtyla?
Viene spesso e giustamente ricordata la sua riproposizione della Dottrina sociale della Chiesa, espressione che non sempre viene tenuta in considerazione. Il Papa ha rilanciato la necessità di conoscere questa Dottrina e di metterla in pratica, ciascuno secondo la propria vocazione e responsabilità: questo è un elemento importante. In un contesto più generale mi sono sembrati cruciali il suo impegno nel dialogo interreligioso, nell’ecumenismo, da cui si riceveva un insegnamento e incoraggiamento per il proprio servizio ministeriale. E, inoltre, il riferimento costante alla famiglia, che considerava sempre l’elemento costitutivo della società, e alla comunità. Nel suo discorso comunitario c’era sempre un’attenzione all’aspetto direttamente ecclesiale, al compito, alla missione, all’evangelizzazione, anche in rapporto con la comunità civile nel rispetto delle distinzioni necessarie. E tutto questo, con l’esigenza di collocare le situazioni che cambiano nel cammino storico, attraverso il dato fondamentale della scelta di fede, dell’ascolto della parola che viene dall’alto, della comunicazione intraecclesiale, della testimonianza della Chiesa, del lavoro per il bene comune.












