Share

«Il Segno»

«In servizio civile spalavo fango accanto ai militari»

Sul numero di dicembre del mensile diocesano intervista a Roberto Rambaldi, nel 1977 obiettore di coscienza tra i terremotati del Friuli, poi chiamato a lavorare alla Caritas ambrosiana e nazionale

di Claudio Urbano

13 Dicembre 2022
Roberto Rambaldi in Rwanda

Da Il Segno di dicembre

Primo vicedirettore laico di Caritas ambrosiana, dal 1984 al 1997, una vita professionale spesa nel sociale (prima ancora che si chiamasse Terzo settore), Roberto Rambaldi è stato tra i primi a scegliere l’obiezione di coscienza, e ha seguito il percorso di moltissimi obiettori. A lui abbiamo chiesto di raccontare la sua scelta, insieme a uno sguardo sui frutti che la strada aperta nel 1972 ha portato negli anni.

In quali circostanze maturò la sua scelta?
Ho fatto domanda per prestare il Servizio civile, nel 1977, presso la Caritas di Udine. Nel 1976 c’era stato il terremoto del Friuli, e lì avevo già svolto diversi campi di lavoro. Significava essere a cinque ore da casa, vivendo nelle stesse condizioni della popolazione terremotata. Quindi la mia posizione era inattaccabile, rispetto alla contestazione che la mia fosse una scelta di comodo.

Una scelta, la sua, dettata più dall’opposizione al servizio militare o sostenuta dalla volontà di spendersi in ambito sociale?
Penso che fossero due facce della stessa medaglia. Mi premeva far capire che, attraverso il servizio civile, la mia era comunque una dichiarazione di disponibilità a mettersi al servizio della comunità. In Friuli, passata l’immediata emergenza dopo il terremoto, venivano a galla i bisogni sociali. D’altra parte è importante sottolineare il rispetto per ogni tipo di scelta, anche quella per il servizio militare si appella alla coscienza. Spesso mi sono trovato spalla a spalla coi militari a spalare il fango o, nelle esperienze successive all’estero, a costruire scuole. In questo ci ritroviamo tutti nella logica del servizio.

Il suo impegno non si è limitato a quei venti mesi…
Dopo il servizio civile mi è stato chiesto di entrare in Caritas italiana (di cui in seguito Rambaldi sarà vicedirettore, ndr). È stata una strada professionale che ho vissuto come un modo naturale di proseguire con coerenza quanto avevo fatto negli anni precedenti. Scherzando, ma non troppo, posso dire di non essermi mai congedato.

A Milano poi ha accompagnato il percorso di moltissimi obiettori…
Caritas ambrosiana arrivò a intercettare anche mille domande ogni anno. Mentre cresceva la consapevolezza per questo tipo di scelta, assumeva via via maggior peso la componente di disponibilità al servizio, piuttosto che l’obiezione alle armi. Era per noi una grande opportunità e insieme una grande responsabilità. Si trattava di aiutare i giovani a fare la scelta giusta, sia verificando le motivazioni dell’obiezione sia indirizzandoli a un ambito di impegno. Puntavamo molto sulla formazione. Non solo pensando al servizio stesso, ma anche con l’intenzione che potessero dare continuità al loro impegno in futuro. Se guardiamo oggi alle realtà della Diocesi, tra cooperative sociali, fondazioni, associazioni, anche tra chi si è impegnato in politica o è diventato sacerdote, sono molti coloro che provengono da questo percorso.

Come vede il futuro del servizio civile? Potrà diventare “universale”, come recita anche la sua nuova denominazione?
Tra le proposte di un convegno in Cattolica nel 1986 chiedevo di lavorare per rendere questo periodo obbligatorio per tutti: una forma di restituzione di quanto riceviamo dalla comunità. È chiaro però che, allora come oggi, questa strada non è sostenibile; forse la vedranno realizzata i nostri figli. Per ora, anche aumentando i numeri rispetto a quelli attuali (nel 2022 sono stati 56 mila i giovani impegnati), ritengo sia importante mantenere alto il valore di questo servizio, salvaguardandone i tratti di una scelta coerente e motivata.

Leggi anche:

Servizio civile, cinquant’anni molto combattuti