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Milano

Il tempo che passa non è un limite che condanna, ma dialogo con Dio e occasione di libertà

L’Arcivescovo ha presieduto la Celebrazione eucaristica con il “Te Deum” nella chiesa di San Fedele. Nel pomeriggio, il Canto di ringraziamento è stato intonato, come tradizione, al Pio Albergo Trivulzio

di Annamaria Braccini

31 Dicembre 2018

Mancano meno di 5 ore al passaggio tra il 2018 e il 2019 e, mentre si sta già in fila per entrare dai varchi blindati nella vicinissima piazza del Duomo e in Galleria Vittorio Emanuele, nella parrocchia di Santa Maria della Scala in San Fedele, l’Arcivescovo di Milano presiede la Celebrazione eucaristica dell’ultimo giorno dell’anno e viene cantato, da un gran numero di fedeli, il Te Deum di ringraziamento.
Tra i tanti milanesi che affollano la chiesa, ci sono anche i rappresentanti delle Istituzioni, con la vicesindaco di Milano, Anna Scavuzzo, e Fabio Altitonante, sottosegretario alla Presidenza della Regione Lombardia. Concelebrano il Rito i sacerdoti Gesuiti, affidatari della parrocchia, tra cui i padri Maurizio Teani e Giacomo Costa, rispettivamente parroco di “San Fedele”, il primo, e presidente della Fondazione culturale omonima, il secondo. È padre Teani a ricordare l’anno che si sta concludendo «particolarmente significativo per la Chiesa ambrosiana con il Sinodo minore “Chiesa dalle genti” e l’inizio della Visita pastorale».
«La data, per quanto convenzionale, costringe alla percezione di una transizione. Si passa dall’anno vecchio all’anno nuovo: c’è un confine, una scadenza. Dovremo scrivere 2019», nota subito l’Arcivescovo, nell’omelia, che sottolinea il significato del concetto di confine. «Quando si tratta di uno spazio, il confine può essere rassicurante, può suggerire l’idea di un limite, ma invece quando si parla del tempo, rivela l’impossibilità di fermarsi».
Insomma, il confine è un’esperienza umana dai molti aspetti. «Comunque, soprattutto la memoria di un limite, la segnalazione di una scadenza, dentro la quale si deve fermare la vita, la giovinezza, la possibilità di fare. Ciò che suggerisce di vivere il Capodanno come una baldoria, un’eccitazione straordinaria indotta dalla musica, dall’eccesso del mangiare e del bere. Perché è meglio non porre domande inquietanti: “Dopo cosa ci sarà o che sarà di noi?”.
Poi, c’è la riflessione «che ripercorre il tempo passato, non tanto per ricordare, ma per cercare un significato e per leggere, tra i dati di cronaca, un cammino, una vicenda provvidenziale, una grazia di Dio». L’esito può essere un incremento di saggezza che riconduce alle giuste proporzioni le cose che abbiamo vissuto – dolori inconsolabili, tragedie irrimediabili, gioie incontenibili – che, appunto, a distanza, si rivelano più proporzionate ed «eventi di una storia che ha dentro una speranza, un rimedio, un’aspettativa di qualcosa di meglio, almeno, un apprendistato a diventare più saggi».
Oppure – e anche questo è un esito sempre possibile (anzi di più) – «un aggravarsi dei sensi di colpa, del rimorso, del rammarico, del risentimento».
Eppure vi è anche la gratitudine per quanto ricevuto, per le persone incontrate, per le cose vissute.
Ma oltre tutto questo occorre, suggerisce l’Arcivescovo, «spingere lo sguardo in avanti, non per prevedere, quanto per individuare un percorso praticabile alla libertà, per formulare propositi, per confermare un impegno o la fedeltà a una vocazione».
Sia che si consideri questo esercizio di riflessione come responsabilità, inquietudine per l’incombere di minacce e paure per la consapevolezza «dell’incommensurabilità dei problemi e la pochezza delle nostre risorse e forze», tutto questo, in ogni caso, non basta, pare suggerire il vescovo Mario. Proprio perché «il passare da un anno all’altro come linea retta come fosse una strada sulla quale siamo costretti a camminare dal passato al futuro», appiattisce la storia e la vita.
Vita, così, «imprigionata dentro l’inerzia del trascorrere del tempo, mentre come cristiani avvertiamo che la nostra vita, questo tempo, non è il trascorrere di un vincolo necessario, ma l’aprirsi di un’occasione e il luogo dove fiorisce l’eternità. Si passa dal dietro all’avanti, non come una linea retta, ma in un tempo fatto di profondità e di altezza; tempo per ricevere grazie e vivere la comunione tra l’uomo e Dio. Un dialogo – questo – che ci mette in rapporto con l’Altissimo, in cui il tempo non è un vincolo che ci rende irrimediabilmente più vecchi, ma occasione di libertà, sperabilmente più lieti, capaci di amare, nell’immagine dell’uomo nuovo. Noi poveri figli di uomini possiamo diventare figli di Dio dopo che Dio si è fatto uomo».
Un passaggio, un confine, allora, che non è «né uno spazio che può essere rinchiuso dentro una frontiera, né un limite che umilia e che condanna a morte, ma che si fa occasione in cui l’eternità fa il suo ingresso nella storia, la vita di Dio entra nella vita degli uomini e tutta la trasfigura».
Alla fine, dopo l’antichissimo canto del Te Deum che si fa preghiera e supplica, ancora qualche parola di ringraziamento per i presenti, per le autorità e per l’impegno dei padri Gesuiti.

Il Te Deum al “Trivulzio”

L’Arcivescovo, come tradizione, aveva già visitato il Pio Albergo Trivulzio e dice così a tutti coloro che si raccolgono con lui per il Te Deum dell’ultimo giorno dell’anno, cantato nella chiesa settecentesca interna alla struttura “ingabbiata” dai ponteggi.
I degenti con molti loro parenti, i medici, gli indispensabili volontari, accompagnano il vescovo Mario nel ringraziamento al Signore per i 12 mesi passati. In rappresentanza del Primo cittadino, c’è la vicesindaco; per la Regione, Giulio Gallera, assessore con deleghe nel comparto sanitario e assistenziale. Non mancano i vertici dell’“Azienda di Servizi alla Persona Istituti Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio” con il nuovo direttore generale, Giuseppe Calicchio. Accanto a lui l’uscente, Claudio Sileo.
Concelebrano il Rito, il cappellano rettore della Cappellania “Immacolata Concezione” dell’Istituto, don Carlo Stucchi, il responsabile del Servizio Diocesano per la Pastorale della Salute, don Paolo Fontana e don Domenico Storri, parroco di “San Pietro in Sala” al cui territorio appartiene il “Trivulzio”.
«La sentiamo vicino alle nostre fragilità, cuori feriti e talvolta sanguinanti. Chi vive in realtà come la nostra sperimenta la bellezza dell’incontro. Mi sento di poter sognare un “Trivulzio” segno vivo e all’altezza delle attese della città», dice, nel suo saluto di benvenuto, don Stucchi, sottolineando il valore dell’ascolto e della preghiera.
Vengono letti alcuni brani della Lettera pastorale “Cresce lungo il cammino il suo vigore” nella riflessione dedicata al Salmo 27.
«Come sul confine, giunti a un limite, confrontati con un passaggio: la data, per quanto sia convenzionale, costringe a mettere al centro della nostra attenzione, una transizione, un passaggio.
Perché è ovvio che, mai come in queste ore, venga da interrogarsi sul passato e sul futuro.
«Meglio non pensare a quello che è stato per evitare sensi di colpa e angosce su quello che sarà. Dunque, questa notte: baldoria», scandisce monsignor Delpini.
C’è, poi, chi pensa, «con una riflessione che ritorna su ciò che è stato, non tanto per ricordare, quanto per cercare un significato e per leggere, nella successione dei fatti, un cammino e anche una grazia di Dio».
«L’esito di questa riflessione sul passato potrebbe essere un incremento di saggezza, che riconduce alle giuste proporzioni vicende, persone, cose. Ciò che emotivamente ci ha molto colpito, svanita l’emozione, si rivela spesso qualcosa di piccolo. Potrebbe essere anche un esercizio di riconoscenza per i doni ricevuti, per le persone incontrate. Ma potrebbe portare anche un aggravarsi di sensi di colpa, di rimorsi, di rammarico e di risentimento per quello che poteva essere e non è stato, per quello che si poteva fare e non si è fatto, per quello che si sperava di ricevere e non è, invece, arrivato».
Se questo è il sostare pensoso sul passato, occorre, ovviamente, anche la riflessione sul tempo che viene, suggerisce il Vescovo. Anche in questo caso, «non tanto per prevedere, quanto per individuare un percorso praticabile alla libertà, per formulare propositi, per confermare un impegno o la fedeltà a una vocazione».
Ancora una volta, l’esito di un tale pensare si fa duplice, potendo far crescere un senso di responsabilità, per riprendere il cammino con maggior determinazione, cercando nuove risorse, nuove alleanze per costruire, migliorare, correggere; o «incrementando paure e incertezze, mentre si profilano minacce e ci si rende conto della complessità dei problemi che ci aspettano e della inadeguatezza delle risorse».
Anche se, evidentemente, è meglio riflettere che fare baldoria, «questa è, comunque, una visione piatta della vita e della storia, una linea retta che corre su un piano. Noi siamo qui, raccolti in preghiera per esprimere la certezza che la vita non è appiattita in un andare dal passato verso il futuro, ma è un essere chiamati a guardare in alto, ad alzare il capo, a riconoscere la presenza di Dio. Non guardiamo solo alle insidie o agli eventi che spaventano, ma a una visione più alta, a una speranza più avvolgente, a una fiducia che penetra in profondità. Per questo viviamo questo momento di passaggio non come un baldoria, non come una riflessione, ma come una preghiera per questo Dio che ci accompagna ieri, oggi e domani».
Infine, l’Adorazione Eucaristica, il suggestivo e tradizionale Te Deum cantato in ginocchio, lo scambio di un saluto di pace portato dall’Arcivescovo a uno a uno dei malati in carrozzina e la visita alla moderna RSA “Bezzi”, nel reparto con 40 posti letto e nel reparto degli Stati vegetativi.