Un anno fa, al risveglio in una delle prime domeniche di lockdown, ho saputo della morte di don Giancarlo: «Piangiamo e preghiamo per don Giancarlo Quadri», diceva il messaggio. Sapevo che era in ospedale per il Covid e, come tutti, speravo in un epilogo diverso. Giusto un mese avanti, appena prima che tutto venisse chiuso, lo avevo incontrato al Convegno Mondialità e si scherzava insieme, scongiurando di prenderselo…
Don Giancarlo – responsabile dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti dalla sua costituzione fino al 2015 circa – è stato “il mio capo” per tanti anni. Alla primissima esperienza lavorativa dopo gli studi, ancora molto giovane e acerba, lo accompagnavo un po’ passivamente nei suoi giri per la Diocesi, dove cercava, con i pochi mezzi umani e materiali a disposizione, di portare a compimento il complesso e non ben definito incarico che gli avevano assegnato: «Sensibilizzare la comunità cristiana al positivo dell’immigrazione». Questa la definizione che gli ho sentito ripetere in centinaia di incontri, per far comprendere ai cuori induriti della gente che i migranti sono persone, fratelli e sorelle alla ricerca di una vita buona. Io snocciolavo dati, lui raccontava aneddoti; io mi “appoggiavo” alle teorie sociologiche, lui parlava di persone. I molti anni di collaborazione e vicinanza, di condivisione di spazi e affetti, mi hanno fatto conoscere il pastore, ma anche la persona, l’istrione, l’amico e l’uomo di Dio.
Spesso nei suoi racconti parlava di Vaprio d’Adda, dove era nato. Lì trascorre l’infanzia, cresce con i fratelli, ma anche con gli amici e l’umanità varia che nell’immediato secondo dopoguerra popolava le corti lombarde. Lì la sua fede è germogliata: col catechismo, facendo il chierichetto, ma soprattutto dalla testimonianza della mamma Emilia, sempre pronta ad aiutare chi era nel bisogno e a comprendere le umane ferite che ciascuno si porta addosso.
Poi la decisione di entrare nel Seminario minore, a 11 anni, e di incamminarsi sulla strada del sacerdozio. Un percorso a tappe che è andato sempre confermandosi, fino alla sua ordinazione avvenuta nel 1969, nel pieno delle rivolte studentesche, nel fermento che allora muoveva i giovani guidati dal sogno di cambiare il mondo, per renderlo più giusto, attento ai diritti di ciascuno, per ridurre le disuguaglianze. Don Giancarlo non aveva mai dimenticato il fascino di quegli anni, dove anche la Chiesa, con il Concilio Vaticano II appena concluso, si apriva a una metamorfosi, tenendo il passo con la storia.
Trascorre i suoi primi anni da prete a Pero, coadiutore in una nuova parrocchia all’estrema periferia di Milano, dove il 98% degli abitanti era migrante dal sud Italia. Sono gli anni delle esperienze da prete dell’oratorio, al limite dell’incoscienza (quella bella), degli incontri con i preti-operai, perfino di qualche ceffone ben assestato – raccontava – per raddrizzare un ragazzo che si stava mettendo sulla cattiva strada, divenendo il punto di riferimento, una figura solida e presente per un’intera generazione, che ancora oggi lo ricorda con affetto e riconoscenza.
Poi il bisogno di incontrare l’umanità molteplice che tanto lo attraeva e di essere ancora di più per gli ultimi lo portano alla scelta di andare in missione, in Africa: trascorre diversi anni nelle missioni diocesane nello Zambia, a Siavonga, imparando la lingua locale e anche a comprendere e rispettare i limiti invalicabili dell’appartenenza culturale.
Dopo quasi dieci anni la malaria e altre ragioni lo riportano in diocesi di Milano, ma per poco tempo. Rimessosi in sesto fisicamente e spiritualmente, continua la sua vita da missionario, seppure in territori non propriamente di missione. Diventa missionario per e con i migranti italiani all’estero: in Inghilterra, negli ultimi anni in Belgio e prima ancora nel suo amatissimo Marocco, dove – diceva – aveva trascorso gli anni più belli della sua vita.
Fra queste esperienze più propriamente missionarie, una lunga parentesi di quasi 20 anni la trascorre come responsabile della Pastorale dei Migranti dell’Arcidiocesi di Milano: un incarico pastorale nuovo, quasi sperimentale, fortemente voluto dall’allora arcivescovo Martini. Don Giancarlo sembra l’uomo e il sacerdote con gli strumenti e l’atteggiamento adatti: conosceva le lingue, avvezzo a confrontarsi con altre culture, con esperienza tra i migranti. Tutto è da inventare e lui ci mette anima e corpo: prodigandosi per la riapertura al culto nel 2003 della chiesa di Santo Stefano Maggiore – che diventa sede della Cappellania dei migranti – e soprattutto facendosi riferimento per i cappellani e le comunità migranti, abituate a vederlo comparire periodicamente alle loro Messe, anche solo per un semplice saluto, incarnando quel I care imparato dagli scritti di don Milani.
Un uomo assetato di giustizia, che ha sempre conservato quell’indignazione nei confronti delle ingiustizie della vita e quella sensibilità nei confronti del patire altrui, che gli consentivano di strappare un sorriso anche fra le lacrime. Un uomo generoso, che chiunque manifestasse un bisogno ascoltava e a chiunque, se gli era possibile, dava, fosse anche una moneta o due. Un uomo misericordioso, che guardava all’uomo, alle sue debolezze, al dolore (vero o artefatto che fosse) e cominciava col farsi vicino.
Un uomo, un prete, diventato per tutti “il prete dei migranti” o, come meglio e più teneramente dicevano i suoi fedeli latino-americani, il padrecito.