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Milano capitale della missione

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Festival/8

«Senza il perdono non possiamo vivere»

L’incontro dedicato alla testimonianza del martirio in terre di missione martoriate dalla guerra e dal terrorismo, ha aperto l’’ultima giornata del Festival della Missione

di Annamaria Braccini

2 Ottobre 2022

Quando la testimonianza si fa martirio – secondo l’etimologia greca di questa parola che significa appunto testimonianza -, può succedere che in una tranquilla domenica mattina di sole in centro a Milano, si arrivi a piangere ricordando fatti e persone, guardando increduli video di bambini che cercano di salvarsi dai mitra dei militari. E questo non solo per le voci incrinate dall’emozione di coloro che, sul palco del Festival della Missione, raccontano la loro storia, ma anche per la commozione che molti, tra il folto pubblico riunito per ascoltarli, sentono come fosse propria.

D’altra parte, il titolo dell’incontro che apre l’ultima giornata del Festival, già da solo, dice tutto: “Il martirio, spreco o dono?”  A parlarne, ma per una volta il verbo è veramente riduttivo perché in gioco ci sono state e ci sono vite – 5 persone che hanno provato sulla loro pelle cosa significhi resistere con la forza della fede. Accanto al moderatore, Gerolamo Fazzini, giornalista, saggista  e insegnante, grande conoscitore del mondo missionario, ci sono, infatti, monsignor Christian Carlassare, comboniano vescovo di Rumbek in Sud Sudan, gambizzato all’indomani della sua nomina, padre Pier Luigi Maccalli, membro della Società delle Missioni Africane, rapito nel Sael, suor Beatrice Maw, delle Suore della Riparazione in Myanmar, Zakia Seddiki, presidente dell’Associazione umanitaria Mama Sofia e moglie dell’ambasciatore Luca Attanasio – barbaramente ucciso il 22 febbraio 2021 nella Repubblica Democratica del Congo, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista, Mustapha Milanbo – e padre Bernard Kinvi, camilliano missionario nella Repubblica Centrafricana.

Christian Carlassare, comboniano vescovo di Rumbek in Sud Sudan

La guerra in Centrafrica

È lui che, collegato da remoto, ricorda la guerra cominciata nel 2013. «Cristiani, islamici, animisti mi hanno sostenuto. Il 60% delle persone che venivano a farsi curare nel nostro ospedale erano musulmani. Il nostro compito all’inizio è stato trovare un canale per dialogare: comunque, abbiamo curato tutti Ci sono state delle minacce armate e una volta i ribelli sono venuti da me, come direttore di ospedale, con l’obiettivo di uccidermi, ma sono riuscito a scappare. Abbiamo seppellito persone in fosse comuni, raccolto cadaveri per strada. Il secondo compito è stato dare rifugio, come abbiamo fatto con 1500 musulmani difesi dall’assalto dei ribelli. É stato un compito arduo, una sfida raccolta unitamente alle Carmelitane presenti nel territorio. Abbiamo evacuato i rifugiati in Cameroun – tra loro anche un marabu è un imam -, anche con mezzi di trasporto merci.  Ogni volta che sollevo l’ostia ringrazio il Signore per averci aiutato.

Suor Beatrice Maw, delle Suore della Riparazione in Myanmar

Il martirio che riguarda tutti

«Il martirio è lo spreco supremo per chi non ragiona con la fede, eppure, in Francia, dove la religiosità è arrivata ai minimi storici, 3 milioni di spettatori sono andati a vedere il film “Uomini di Dio” (la pellicola sui martiri di Tibhirine). Il martirio è cattolico, riguarda ognuno; è il segno di contraddizione più grande ieri come oggi: è un ecumenismo del sangue che abbraccia tute le vocazioni della Chiesa, tutti i continenti, che accomuna cristiani di diverse confessioni», chiosa Fazzini.

Padre Pier Luigi Maccalli, membro della Società delle Missioni Africane

Il dramma del Myanmar

Dall’Africa si passa all’Asia con suor Beatrice che dice, a tratti, non trattenendo le lacrime: «1 febbraio 2021 un colpo di Stato ha portato il Myanmar – 5 diocesi su 16 fondate dai missionari italiani – alla guerra civile . Ora la situazione si è aggravata 16.000 arrestare, torturate, violentate, 8000 morti, chiese e case bruciate, oltre 260 attacchi a scuole con tanti bambini vittime». Come i due piccoli uccisi in una chiesa che, in un video, sono pianti dal papà o il convento delle Suore della Riparazione violato. Scioccanti le immagini dei bimbi trasportati in una trincea di fortuna fatta di stracci che recitano il Rosario insieme a giovani della resistenza, mentre gli elicotteri della giunta militare sorvolano la zona, sparando.

«Le mie consorelle sono martiri viventi – prosegue suor Maw -, sempre unite al popolo, offrendo servizio nei campi rifugiati, nella giungla, assistenza nella formazione scolastica o alle donne traumatizzate. Sono disposte a dare la vita, sapendo che così si diventa nemici dei militari e che questo è pericolosissimo».

L’esempio dell’ambasciatore Attanasio

Se possibile, ancor più doloroso il racconto di Zakia Attanasio. «Luca è diventato quello che avete conosciuto per gli insegnamenti ricevuti da bambino, in famiglia e frequentando l’oratorio. Fare l’ambasciatore per lui era una missione e significava non lasciare mai nessuno indietro. Non si è mai scordato dell’umanità nel suo lavoro vissuto con una serietà fatta di rispetto per ogni persona. Il destino non possiamo cambiarlo, ma certe persone non muoiono perché continuano a interrogarci e a insegnarci qualcosa tutti i giorni. Mama Sofia porta avanti, oggi, la sua missione».

E, poi, considerando che nell’agguato sono morti anche il carabiniere e l’autista musulmano, la certezza che «il martirio può diventare un ponte tra cristiani e musulmani, perché la vita non ha colore e religione».

Zakia Seddiki, presidente dell’Associazione umanitaria Mama Sofia e moglie dell’ambasciatore Luca Attanasio

2 anni e 21 giorni di prigionia

«Ho pensato di essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato  ma non è così: il posto di un missionario è stare con la propria gente», scandisce padre Gigi Maccalli, per più di 2 anni prigioniero di un gruppo jihadista che lo aveva rapito il 17 settembre 2018 in Mali. «L’8 ottobre 2018 (la liberazione avvenuta in Niger sarebbe avvenuta esattamente 2 anni dopo), mi hanno incatenato a un albero, ho pianto e gridato a Dio, “Perché mi hai abbandonato?”. Per un anno la mia prigione è stato il cielo aperto del Sahara, ma se i miei piedi sono incatenati il mio cuore no. Ed è iniziato, allora, il mio viaggio di uomo libero, pregando per tutti, chiedendo che il Signore porti la pace a tutti. Amate i vostri nemici, dice il Vangelo: io i nemici li avevo davanti a me con tanto di kalashnikov, anche se non li percepivo tali. Guardando la croce, come il Signore ha perdonato, ho dato anche io il mio perdono. Ora sono in pace perché, il giorno della liberazione, ho detto al mio carceriere: “Che Dio ci permetta di capire un giorno che siamo tutti fratelli”. Credo che questa sia la strada e l’orizzonte».   

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Senza perdono non potrei fare il Vescovo della mia gente

Infine,. a prendere la parola è monsignor Carlassare, dal 2005 in Sud Sudan «in una Chiesa che è cresciuta per la sua vicinanza alla gente e la testimonianza di comunione. Una Chiesa che mi ha adottato e di cui mi sento figlio», come precisa, tornando con la memoria al giorno della suo grave ferimento alle gambe.

«A dieci giorni dalla mia nomina a Vescovo ho subito un agguato, nello stesso giorno in cui 2 donne incinte, sempre a Rumbek, sono state uccise per vendetta. Di me si è parlato, di loro no. Ogni vita conta ma, forse, la mia vicenda poteva portare in luce come la violenza non porti da nessuna parte».

Il 25 marzo di questo anno l’Ordinazione episcopale, «un segno che ci si può rialzare insieme e che l’evangelizzazione oggi prende sempre di più il nome di riconciliazione. Il perdono ha liberato me e anche i due giovani che mi hanno sparato e che sono stati manipolati a tale fine. Se non avessi perdonato – con un perdono che anche per me è stato un dono -, non avrei mai potuto diventare padre dell’umanità nella mia Diocesi. Per andare controcorrente, come dice il Papa, ci vuole la libertà che solo Gesù può dare e questo lo possiamo testimoniare, infatti tanti hanno scelto, in Sud Sudan, la non violenza».

«Non incateniamo mai nessuno magari anche solo con le catene dei pregiudizi – conclude Maccalli quasi consegnando un  impegno ai presenti -, leviamo le etichette, impariamo a guardare negli occhi gli altri. Siamo in un mondo di rumore, facciamo silenzio e poniamoci le domande profonde».

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