Link: https://www.chiesadimilano.it/news/chiesa-diocesi/baranzate-un-modello-di-quartiere-301901.html
Sirio 09 - 15 dicembre 2024
Share

Esperienze

Baranzate, un modello di quartiere

Nella cittadina alle porte di Milano vivono 76 etnie che parlano 33 lingue diverse. Eppure per don Steffano, parroco di Sant’Arialdo, le tante differenze sono diventate «processi virtuosi di contaminazione culturale e sociale attraverso una solidarietà attiva e condivisa»

di Veronica TODARO

13 Gennaio 2020
Don Paolo Steffano

La quotidianità a Baranzate? Il Vangelo e i poveri. Paolo Steffano, parroco di Sant’Arialdo, artefice principale di innumerevoli progetti, per i quali ha ricevuto anche una onorificenza dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si racconta: «Un quartiere cittadino, non è un mero agglomerato di caseggiati, ma un luogo antropologico chiamato a riscoprire la sua autenticità. Abitiamo un quartiere, conosciamo le persone, condividiamo le storie. Ciascuno di noi non ha una storia, ma è una storia. E in un quadro multietnico e interculturale, come quelli di varie nazioni europee da molto tempo e, da qualche decennio, anche dell’Italia, ogni discorso di corto respiro appare sempre più fuori dalla realtà. Per Baranzate, in particolare dal 2005 a oggi, è stata ed è una storia di deserti e di oasi, di continue ripartenze, di relazioni da costruire, di ferite da accompagnare».

Baranzate è una piccola cittadina alle porte di Milano, 700 metri a nord della metropoli definita spesso come la più operosa di Italia: un piccolo centro che è già periferia per i pochi servizi presenti, per la difficoltà a raggiungere la grande città, per la carenza strutturale di occasioni di cultura e prevenzione. Un luogo di arrivo e passaggio, crocevia di storie di migrazione del passato e del presente, “casa” per quanti hanno intrapreso un lungo viaggio chiamato speranza. Questa zona, fatta di palazzoni sorti negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso come terra di accoglienza per gli immigrati meridionali chiamati a risalire la penisola dall’industrializzazione del Nord, oggi, 2019, è un paese di volti provenienti da 76 etnie diverse. «Siamo tutti ospiti e cittadini – continua don Paolo -. La nomea socio-culturale negativa del quartiere, i drammi relazionali della gente, l’assenza di riscaldamento in non poche case, vari ragazzi agli arresti domiciliari, molte famiglie in grave difficoltà socio-economica, i malati psichici presenti in quartiere: ecco la realtà che ci ha invitato a scegliere di esserci come presenza tesa a generare attenzione, relazione e cittadinanza e a sviluppare tessuti inclusivi».

Sono 12 mila gli abitanti di Baranzate i quali parlano almeno 33 lingue diverse: differenze che ostacolano solo apparentemente la costruzione di una comunità. «Abbiamo iniziato creando circoli di prossimità e di condivisione che pian piano sono maturati in progetti e azioni condivise, focalizzando l’obiettivo iniziale non tanto sulle riunioni, ma sulle relazioni, evitando da subito il rischio di inventare progetti senza le persone o al di sopra di esse». Un quartiere modello? «No. Un modello di quartiere. Da un quartiere a rischio al rischio di un quartiere capace di trasformazione. Abbiamo cercato e stiamo cercando di trasformare ambienti ghettizzanti in luoghi di relazioni qualificate, capaci di promuovere processi virtuosi di contaminazione culturale e sociale da metabolizzare, attraverso una solidarietà creativa e condivisa, capace di avviare motori di cambiamento, sostenendo le vulnerabilità, ma anche favorendo le eccellenze culturali e professionali che scaturiscono da risorse interiori e relazionali che molti non sanno di avere. Abbiamo anche visto come il degrado generi degrado e più ancora disagio emotivo e psicologico. Un altro nostro obiettivo è stato ed è individuare con pazienza gli “anticorpi” giusti per far emergere in ogni luogo e persona la parte sana, anche quando è particolarmente nascosta». E ancora: «Crediamo che le relazioni siano il vero patrimonio dell’umanità. La costruzione di un team coeso e affidabile è una delle nostre priorità».

Qui nasce nel 2010 e opera “La Rotonda”, un’associazione di promozione sociale che sceglie di mettere radici in questo terreno sapendo che solo dove si vive si può divenire seme insieme agli altri facilitandone la crescita, agevolandone il cambiamento, sostenendo i fusti fragili. La rotonda gira. Una rotonda è di facile accesso. Ben delimitata, ma senza cancelli di separazione, divisione e di esclusione. Una rotonda ha un centro, che serve come riferimento fondamentale, ma la vita si svolge tutta nella sua periferia. Una rotonda non ha mai l’obiettivo di trattenere al suo interno, semmai di inviare altrove. In questa rotonda. Ci sono le precedenze da rispettare: i poveri. «Un giorno del 2014 – racconta il don – nel nostro giardino sono nate cinque piante di cotone, erano isolate, sapevano di custodire un frutto non ancora maturo. Abbiamo assecondato la loro natura mettendole vicine e dando loro la possibilità concreta di mettere insieme i propri frutti, mettendosi in gioco e trovando soluzioni creative per uscire dall’isolamento. È nato così il progetto di sartoria “Fiori all’Occhiello”, non solo un tentativo di condivisione, ma oggi una realtà concreta di impresa in grado di comunicare al mondo attraverso i propri prodotti l’importanza e la valenza del processo che li ha creati. È proprio l’integrazione delle differenze a generare bellezza, valore e ricchezza per il territorio».