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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Emarginati

I carcerati non sono morti viventi

Il lavoro di tanti volontari per integrare e reinserire i carcerati testimonia il desiderio di credere nel valore della�persona, nella sua possibilità di recupero e di reinserimento sociale

di Luisa BOVE Redazione

1 Giugno 2010

Da qualche anno si respira a Milano (ma non solo) un clima di sospetto che sta danneggiando una sana convivenza tra i cittadini. Fa paura il diverso e ciò che non si conosce, si teme chi non è classificabile e definibile in categorie precostituite, non si investe più in stima e fiducia nelle persone perché si crede che tutti abbiano un secondo fine o un tornaconto non dichiarato. È in un clima come questo che si moltiplicano timore e diffidenza verso tutto ciò che non è simile a noi e così l’elenco delle persone da emarginare – se non addirittura da disprezzare – si allunga. Scattano pregiudizi e paure spesso infondate che si diffondono tra la popolazione a effetto domino.
Tra le categorie da tenere lontane ci sono anche i “carcerati”, come dice l’arcivescovo Tettamanzi. Eppure nel capoluogo lombardo non tutti pensano che siano da emarginare. Sono tante infatti le realtà di volontariato impegnate in ambito penitenziario, prime fra tutte la Sesta Opera San Fedele (legata ai gesuiti), in Italia una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria nata nel 1923. Il nome è già un programma: la sesta opera di carità fa riferimento al vangelo di Matteo (25, 36) che dice: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi».
In tempi più recenti è nato a Milano anche il Gruppo Carcere Mario Cuminetti (1985), il cui fondatore, teologo e saggista, ha fatto molto per portare la cultura in carcere attraverso i libri. A San Vittore grazie al suo impegno è attiva ancora oggi una grande biblioteca a disposizione dei detenuti. È qui che affonda le sue radici “Bambinisenzasbarre”, gruppo nato nel 1997 e come associazione nel 2002. Oggi i suoi operatori sono impegnati in ambito penitenziario per mantenere vivi i rapporti tra genitori e figli di detenuti.
Negli ultimi anni l’attenzione ai reclusi si è spostata all’esterno, “fuori” dalle mura degli istituti di pena e ha coinvolto anche alcune parrocchie milanesi: ai Quattro Evangelisti opera l’associazione “Ciao” e a San Vittore al Corpo “Il girasole”, alla Pentecoste sono attivi alcuni volontari. Queste tre realtà offrono accoglienza abitativa temporanea a detenuti in permesso premio o in affidamento ai servizi sociali. Al di là di tante diffidenze e timori nei confronti di chi ha commesso un reato e ora sta pagando il suo conto alla giustizia, la presenza e l’impegno di tanti volontari conferma il desiderio di credere nella persona e nella sua possibilità di recupero, di reinserimento sociale e a volte di redenzione. Un modo concreto per abbassare i muri del sospetto e per offrire una seconda possibilità a chi ha sbagliato.
Come dice spesso don Alberto Barin, cappellano di San Vittore, bisogna che il carcere (càrcar in ebraico significa seppellire) non riduca il detenuto a un morto vivente, inchiodato alla branda come alla sua tomba. E così aiuta tutti ad allargare la mente e ad alzare lo sguardo. Da qualche anno si respira a Milano (ma non solo) un clima di sospetto che sta danneggiando una sana convivenza tra i cittadini. Fa paura il diverso e ciò che non si conosce, si teme chi non è classificabile e definibile in categorie precostituite, non si investe più in stima e fiducia nelle persone perché si crede che tutti abbiano un secondo fine o un tornaconto non dichiarato. È in un clima come questo che si moltiplicano timore e diffidenza verso tutto ciò che non è simile a noi e così l’elenco delle persone da emarginare – se non addirittura da disprezzare – si allunga. Scattano pregiudizi e paure spesso infondate che si diffondono tra la popolazione a effetto domino.Tra le categorie da tenere lontane ci sono anche i “carcerati”, come dice l’arcivescovo Tettamanzi. Eppure nel capoluogo lombardo non tutti pensano che siano da emarginare. Sono tante infatti le realtà di volontariato impegnate in ambito penitenziario, prime fra tutte la Sesta Opera San Fedele (legata ai gesuiti), in Italia una delle più antiche associazioni di assistenza carceraria nata nel 1923. Il nome è già un programma: la sesta opera di carità fa riferimento al vangelo di Matteo (25, 36) che dice: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi».In tempi più recenti è nato a Milano anche il Gruppo Carcere Mario Cuminetti (1985), il cui fondatore, teologo e saggista, ha fatto molto per portare la cultura in carcere attraverso i libri. A San Vittore grazie al suo impegno è attiva ancora oggi una grande biblioteca a disposizione dei detenuti. È qui che affonda le sue radici “Bambinisenzasbarre”, gruppo nato nel 1997 e come associazione nel 2002. Oggi i suoi operatori sono impegnati in ambito penitenziario per mantenere vivi i rapporti tra genitori e figli di detenuti.Negli ultimi anni l’attenzione ai reclusi si è spostata all’esterno, “fuori” dalle mura degli istituti di pena e ha coinvolto anche alcune parrocchie milanesi: ai Quattro Evangelisti opera l’associazione “Ciao” e a San Vittore al Corpo “Il girasole”, alla Pentecoste sono attivi alcuni volontari. Queste tre realtà offrono accoglienza abitativa temporanea a detenuti in permesso premio o in affidamento ai servizi sociali. Al di là di tante diffidenze e timori nei confronti di chi ha commesso un reato e ora sta pagando il suo conto alla giustizia, la presenza e l’impegno di tanti volontari conferma il desiderio di credere nella persona e nella sua possibilità di recupero, di reinserimento sociale e a volte di redenzione. Un modo concreto per abbassare i muri del sospetto e per offrire una seconda possibilità a chi ha sbagliato.Come dice spesso don Alberto Barin, cappellano di San Vittore, bisogna che il carcere (càrcar in ebraico significa seppellire) non riduca il detenuto a un morto vivente, inchiodato alla branda come alla sua tomba. E così aiuta tutti ad allargare la mente e ad alzare lo sguardo.