Uno dei risultati più importanti delle lotte sindacali culminate nell’«autunno caldo» del 1969 – che affermarono una maggior dignità di chi lavorava in fabbrica – fu l’approvazione della legge 300, universalmente nota come Statuto dei lavoratori (20 maggio 1970).
Molto si deve al riguardo alla volontà riformatrice del ministro socialista Giacomo Brodolini, che non vide il suo disegno concluso perché stroncato prematuramente da una grave malattia. Il suo impegno fu proseguito con tenacia da Gino Giugni, chiamato a presiedere la Commissione preparatoria (e vero “padre” dello Statuto), e non meno dal ministro democristiano Carlo Donat Cattin, che si assunse il compito non facile di portare a termine l’obiettivo.
Lo Statuto dei lavoratori ha indubbio valore per le norme che contiene, ma forse e più ancora per il suo carattere simbolico; spesso si è detto, con un fondo di verità, che con esso «la democrazia è entrata nella fabbrica».
Se guardiamo al contenuto, lo Statuto contiene alcune norme di salvaguardia della libertà del lavoratore (libertà di opinione, il controllo delle guardie deve riguardare il patrimonio e non le persone, divieto di controllo attraverso strumenti audiovisivi, visite sanitarie svolte da enti pubblici e non dalle aziende), il famoso articolo 18 relativo ai licenziamenti previsti solo per giusta causa (perennemente al centro del dibattito tra chi lo vuole limitare e chi lo vuole difendere ed estendere) e poi diversi articoli sulla libertà sindacale (assemblea, permessi per i delegati, deleghe di iscrizione, locali di riunione, distacchi per incarichi sindacali e anche politici…).
Lo Statuto fu approvato in un momento in cui il sindacato era molto forte e diverse sue conquiste costituivano contemporaneamente rivendicazioni sindacali (alcune già acquisite dai contratti di categoria). C’era poi in una parte del sindacato una tendenza a sottovalutare la legge e a pensare un po’ orgogliosamente di poter fare da soli; nella Cisl era di casa l’idea dell’autonomia del sindacato e la Cgil diffidava pregiudizialmente del governo (e infatti il Pci votò contro lo Statuto).
Racconto un episodio in proposito. Data la situazione di incertezza sull’esito dello Statuto, come sindacati unitari organizzammo un convegno a Milano, invitando Giugni: in quanto Segretario generale della Fim-Cisl (all’epoca la categoria più avanzata) presi la parola a nome dei metalmeccanici. Espressi qualche critica su punti specifici, ma diedi un avallo generale alla proposta. Certo, le decisioni non si prendevano in quella sede; ma per Giugni avere il consenso della parte più avanzata del sindacato rappresentò un viatico per proseguire sicuro. E facemmo bene, perché la maggior parte delle categorie e delle aziende non avrebbero mai goduto di quei diritti e perché negli anni successivi di crisi lo Statuto rappresentò sempre una valida linea di difesa dei diritti acquisiti. Non per niente ancora adesso, passati cinquant’anni, non è passato di moda…
Negli anni successivi Giugni tentò di proseguire il suo lavoro con una proposta di partecipazione dei lavoratori nelle imprese, ma i sindacati non erano pronti e preferirono continuare sulla strada della contrattazione collettiva. Oggi i sindacati riparlano di partecipazione, ma non hanno più la forza di un tempo. I tempi appaiono maturi per riproporre quel tema come un nuovo passo in avanti della «democrazia nei luoghi di lavoro».
Vale la pena segnalare che la Ces (il sindacato europeo), per sostenere la presenza sindacale nelle multinazionali e darle una base giuridica, ha fatto ricorso al pensiero di Giugni (condiviso dal sindacato italiano) della “legislazione di sostegno”, che non intende sostituire l’autonomia sindacale, ma promuoverla e incoraggiarla. Lo Statuto ha quindi aperto una strada, che oggi può e deve essere positivamente continuata.