«In Europa assistiamo a un arretramento nel diritto d’asilo». A denunciarlo è padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, illustrando il Rapporto 2004 sulle attività del centro dei Gesuiti per i rifugiati.
Il recente Patto sulla migrazione e l’asilo, approvato da pochi giorni dal Parlamento europeo, per il Centro Astalli «sancisce un arretramento rispetto al diritto di asilo, perché – come hanno dimostrato fatti e situazioni nel corso del 2023 – non è attraverso l’esternalizzazione, i respingimenti, la mancanza di una vera politica di soccorso in mare e le procedure accelerate alla frontiera che si affronta il fenomeno migratorio». «Complessità non è sinonimo di complicazione – ha precisato il gesuita -. Non si affronta quello che è considerato il problema migratorio rimuovendo le persone dal suolo europeo, ma rimuovendo le cause delle migrazioni forzate».
Diritti a rischio
Al contrario, per Ripamonti, «stiamo riempiendo di ostacoli i percorsi migratori delle persone che si mettono in viaggio, in fuga da guerre conclamate, da aree di crisi, da zone trasformate dai cambiamenti climatici o semplicemente da quella ingiustizia globale che ha aperto sempre di più negli anni la forbice delle disuguaglianze. Discrezionalità dei singoli Stati e un inasprimento delle procedure accelerate alle frontiere mettono a rischio i diritti di molte persone che arrivano sempre più vulnerabile nei territori dell’Unione». «È affrontando insieme, in modo propositivo, il fenomeno migratorio che lo si rende una risorsa, non affrontandolo ogni Stato per sé e in modo difensivo», la proposta del Centro Astalli, secondo cui «con il nuovo Patto europeo abbiamo perso un’occasione».
La situazione italiana
Per quanto riguarda l’Italia, «ricorderemo il 2023 come l’anno della decretazione d’urgenza sulle migrazioni», ha osservato Ripamonti denunciando «un progressivo impoverimento dell’accoglienza» che ha caratterizzato l’anno appena trascorso.
Su un totale di 235 persone accolte dal Centro Astalli a Roma, 1 su 6 è stata vittima di tortura e violenza e 1 su 6 ha una vulnerabilità sanitaria. «Esiste anche una vulnerabilità più nascosta – ha commentato il gesuita – spesso legata a traumi vissuti e non ancora elaborati: per emergere ed essere indirizzata verso un percorso di cura ha bisogno di tempo, attenzione e di un’accoglienza progettuale adeguata in termini di spazi e modalità. Pensare di riservare un’accoglienza progettuale solo ai vulnerati espliciti condanna le persone con vulnerabilità invisibili ad andare incontro inesorabilmente al loro destino di persona vulnerate».