Perché una persona arriva a delinquere? Quanto conta il contesto in cui vive? Come tornare alla vita sociale dopo una detenzione? A questi e a tanti altri interrogativi risponde il libro di Luisa Bove Respiro. Il carcere oggi tra condanna e riscatto (In Dialogo, 174 pagine, 18 euro), che sarà presentato giovedì 29 maggio alle 14.30 presso la Caritas Ambrosiana (via San Bernardino 4, Milano). Oltre all’autrice, interverranno Anna Giroletti (responsabile del Servizio psichiatrico penitenziario di San Vittore, Opera, Bollate, Beccaria) e Teresa Mazzotta (dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna); modera il giornalista Fabio Pizzul.
A firmare la prefazione è Lucia Castellano, già direttrice del carcere di Bollate e oggi provveditrice regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Campania. «Il nuovo respiro che dovremmo fornire ai nostri ospiti all’interno degli istituti e ai cittadini che scontano una pena sul territorio – scrive la Castellano – è fatto di nuove opportunità, della scoperta che esistono modi diversi per vivere la vita, passioni sconosciute per un lavoro, un’attività creativa, nuove forme di relazioni». Chi ha pagato il proprio debito con la giustizia ha diritto a una seconda possibilità per non tornare a delinquere, trovando un lavoro dignitoso che gli consenta di pagare un affitto. È in questa fase intermedia della vita che spesso intervengono enti del Terzo settore creando un ponte tra il dentro e il fuori.
L’emergenza salute mentale
Il libro si arricchisce di contributi di esperti che approfondiscono alcuni temi di grande attualità. Forse il più grave e meno noto al pubblico è quello della salute mentale a San Vittore, di cui parla Anna Giroletti, intervistata dall’autrice. I numeri parlano chiaro: nel 2024 sono state trattate e diagnosticate quasi 800 persone, con un assiduo lavoro di cura e monitoraggio. Ci sono addirittura detenuti che scoprono solo in carcere di avere una patologia psichiatrica perché non hanno mai avuto accesso a un servizio del territorio. «Nelle case di reclusione, soprattutto quelle di grandi dimensioni – spiega Giroletti – il problema rimanda alla questione del “sommerso”, cioè alle condizioni psicopatologiche che, quando espresse in forma “mite”, non sempre sono intercettate e riconosciute come tali». E se all’interno del carcere vengono curati e stabilizzati (se gravi non dovrebbero neppure rimanere reclusi, ma essere trasferiti nelle Rems), il problema si pone quando lasciano l’istituto, perché la presa in carico da parte dei Servizi del territorio è molto lenta se non impossibile.
Le misure alternative
La legge italiana consente di scontare parte della pena anche fuori dal carcere, alle “misure alternative” (affidamento in prova, detenzione domiciliare…). In tal caso i detenuti sono tenuti a riferirsi agli assistenti sociali dell’Ufficio esecuzione penale esterna, che a Milano è diretto da Teresa Mazzotta. «Gli uomini e le donne presi in carico dall’Uepe – spiega – sono, prevalentemente, persone che hanno vissuto in un contesto di vita da deprivazione sociale, sia in ambito familiare (nuclei genitoriali privi di risorse economiche, lavorative e relazionali), sia a livello territoriale (contesti locali difficili)». Tali fattori spesso inducono queste persone a vivere di espedienti e di conseguenza a intraprendere percorsi di devianza.
L’extrema ratio
Uno sguardo lungimirante viene da Luigi Pagano, che per 40 anni ha lavorato come direttore in diversi istituti, ma anche a livello regionale e nazionale. La sua lunga esperienza lo porta a dire che il carcere deve essere l’extrema ratio e che la polizia penitenziaria dovrebbe partecipare attivamente a percorsi rieducativi. Sogna quindi «un’organizzazione diversa», a partire dalla «cosiddetta “sorveglianza dinamica” da molti demonizzata (alternativa alle modalità tradizionali di custodia e controllo per prevenire evasioni, risse, aggressioni, danneggiamenti), che consiste nella partecipazione alle attività trattamentali e alla conoscenza personale dei detenuti».
L’autrice di Respiro dà voce anche a tre uomini e una donna che raccontano le loro storie di detenzione e di riscatto, senza sconti e senza filtri. C’è chi, dopo anni di carcere, arriva a intraprendere anche un percorso di giustizia riparativa, descritta – nell’ultimo capitolo del volume – da Bruna Dighera (membro del Tavolo lecchese di giustizia restorativa), cui si aggiungono le intervista a un reo, a una vittima e a un cittadino in rappresentanza della società civile, ferita a sua volta.
È un libro «prezioso» dichiara Lucia Castellano, che consente «di capire cosa sia il nuovo respiro» di chi in carcere lavora e di chi ne esce avendo colto tutte le opportunità possibili.