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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Riflessione

Giustizia riparativa, trasformare il danno in un’opportunità di cambiamento

A quasi un anno dal varo, la Riforma Cartabia ha inciso positivamente sulla durata dell’iter processuale, meno sull’applicazione delle pene sostitutive. Ma il concetto di “ristoro” non deve limitarsi al piano giudiziario, perché può estendersi alla comunità in generale

di Andrea MOLTENI

21 Novembre 2023

Un anno (o quasi) dalla riforma, una settimana per approfondirne contenuti e prospettive. Nel corso della Settimana internazionale della giustizia riparativa (Restorative Justice Week, 19-25 novembre), appare opportuno tentare un primo, parziale bilancio della riforma che in Italia ha reso norma il ricorso alla stessa.

Il 30 dicembre 2022 – appena entro il termine imposto dal Pnrr, di cui costituisce una delle condizioni – è entrata in vigore la cosiddetta “Riforma Cartabia”, dal nome della Ministra della Giustizia che l’ha fortemente voluta. Il testo del decreto legislativo n. 150 del 10 ottobre 2022, convertito con alcune modifiche nella legge n. 199/2022, è stato il prodotto di un lavoro lungo e complesso, condotto da sei gruppi di studio costituiti presso il Ministero. È una riforma ampia, che interviene su molti e diversi aspetti della giustizia penale italiana, da quelli procedurali a quelli organizzativi, fino al varo di rilevanti innovazioni riguardanti le pene. E soprattutto fino all’introduzione, nell’ordinamento penale italiano, di una disciplina organica della giustizia riparativa.

Tempi ridotti

La riforma pare aver centrato i suoi obiettivi, in linea con gli obiettivi indicati dal Pnrr, nelle parti destinate a incidere sulla durata dei procedimenti. L’abbattimento dei tempi giudiziari appare effettivo: l’ultima relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori del Pnrr in materia giudiziaria indica, per il primo semestre del 2023, una riduzione del 29% in riferimento al disposition time (che calcola il rapporto tra i procedimenti pendenti e quelli definiti nell’anno) nel settore penale e del 19,2% nel settore civile.

Il sovraffollamento carcerario

Più complesso è invece valutare l’esito della riforma riguardo l’applicazione delle pene sostitutive e il ricorso a percorsi di giustizia riparativa. Sul primo tema non sono ancora disponibili dati precisi sull’utilizzo delle sanzioni sostitutive da parte dei tribunali italiani; sono state emesse, però, diverse sentenze che le impongono come esito del processo. E un numero crescente di tribunali ha stilato schemi operativi relativi alla loro applicazione.

Uno degli obiettivi dell’introduzione di queste nuove forme sanzionatorie è ridurre l’affollamento carcerario, tornato ormai a toccare livelli intollerabili. Rispetto a questo auspicabile obiettivo, resta il timore che accada quanto è accaduto con altri tentativi esperiti, in passato, con la medesima intenzione: non hanno di fatto inciso sul sovraffollamento, ma anzi hanno avuto l’effetto concreto e reale di estendere la quota di popolazione complessivamente sottoposta a una misura giudiziaria o penale.

Ricomporre i legami sociali

La riforma ha inoltre introdotto, come detto, una disciplina organica in materia di giustizia riparativa, che dispone, parallelamente al percorso giudiziario penale, la possibilità di accedere a forme di ricomposizione dei legami sociali e di riparazione dei danni creati da un reato. Si trattava di dare forma giuridica alla cultura della giustizia riparativa che, come ha ricordato papa Francesco nel suo discorso rivolto ai membri del Consiglio superiore della magistratura, «è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello». Novità, questa, che riguarda fortemente anche le nostre comunità territoriali, chiamate ad assumersi, in qualche misura, la responsabilità del fatto penale e della sua soluzione positiva.

Applicare pienamente l’ordinamento sulla giustizia riparativa richiederà però ancora un po’ di tempo, necessario per la costituzione dei nuovi Centri di giustizia riparativa o per l’adeguamento alla normativa di quelli già esistenti. Intanto sono stati pubblicati i decreti che regolano la costituzione e i requisiti di iscrizione all’elenco dei mediatori esperti in giustizia riparativa; diverse università stanno avviando percorsi di formazione per i mediatori; i Centri già esistenti (come quello del Comune di Milano) hanno cominciato ad affrontare i primi percorsi di giustizia riparativa sulla base della nuova legge.

«Riparare» non solo nel diritto penale

Al di là di una valutazione complessiva di questo nuovo istituto giuridico, che richiederà tempi più lunghi e dovrà tener conto dei suoi aspetti più delicati e controversi (per esempio il diritto di difesa, il ruolo degli esperti nella gestione e nella composizione dei conflitti penali, il rischio di un’estensione del controllo penale sul terreno dei legami sociali o di una qualche forma di “negoziazione” delle responsabilità penali), è bene sottolineare che quello penale non è l’unico ambito di applicazione della giustizia riparativa, che riguarda ogni contesto in cui si faccia esperienza di un danno, in cui si eserciti il “potere di punire”: e dunque può riguardare anche la scuola, la famiglia, il contesto lavorativo, la comunità in generale. Essa è fondata sul dialogo e sul rispetto, e restituisce la “proprietà” del conflitto a chi lo ha vissuto: a chi ha subito un danno anzitutto, insieme a chi lo ha causato e al contesto relazionale e sociale – la comunità – entro cui il conflitto e il danno si sono verificati.

La giustizia riparativa, inoltre, non sostituisce né esclude la possibilità di una sanzione, ma ha uno scopo diverso dalla punizione, ovvero quello di comprendere il senso di ciò che è accaduto e trasformare il contesto stesso in cui il fatto dannoso è avvenuto, partendo dal racconto di chi, in una forma o nell’altra, l’ha vissuto in prima persona. Quella riparativa è insomma una giustizia “enzimatica”: gli operatori non sono esperti e professionisti esterni che espropriano il conflitto a chi l’ha esperito, ma agiscono per promuovere e facilitare la sua risoluzione positiva, coinvolgendo tutte le parti in causa e operando per la trasformazione del danno in un’opportunità di cambiamento.