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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Educazione

«Cyberbullismo? Figlio di una cultura che accetta la violenza come normale»

Luca Pisano, uno dei massimi esperti italiani, spiega: «Solo se vivono le esperienze digitali dei figli i genitori possono insegnare loro ad abitare la rete senza pericoli»

di Manuela BORRACINOAgensir

28 Luglio 2022

C’è un «deficit di comprensione da parte di genitori e insegnanti sulla realtà virtuale che è a tutti gli effetti una sottocategoria della realtà» con la conseguenza che «la generazione di genitori nati negli anni Settanta è in grandissima difficoltà perché, pur stando sui social, non è in grado di educare i figli alle nuove tecnologie. Da questo punto di vista fare i genitori oggi è quasi esercizio abusivo della professione», esclama con ironia lo psicologo Luca Pisano, direttore dell’Osservatorio Cybercrime della Sardegna e consulente di vari organismi nazionali contro bullismo e cyberbullismo. Perciò, rimarca al giro di boa dell’estate e mentre si comincia a programmare l’anno scolastico, «è indispensabile che i genitori vivano le esperienze digitali che compiono i figli: solo così possiamo insegnare loro ad abitare la rete sfruttandone tutte le potenzialità e scansando i pericoli».

Come lui stesso ha cercato di fare nel volume Smart family. Manuale per la consapevolezza digitale in famiglia, scritto a quattro mani con il vicepresidente dei pediatri italiani Osama Al Jamal e introdotto dalla prefazione dell’Arcivescovo di Cagliari e nuovo Segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi.

Lei ha collaborato a una delle ultime indagini regionali Eurispes sul cyberbullismo dalla quale emergono dati che, benché basati su un campione della Sardegna, sono evidenti anche nel resto d’Italia. Che idea si è fatto di questo fenomeno?
Il primo problema a mio avviso sta nel fatto che la maggior parte di genitori e studenti non ha compreso che cosa sia la realtà virtuale: neanche la Didattica a distanza (Dad) ha permesso di capire che sono la stessa cosa, che la cosiddetta realtà virtuale è una sottocategoria della realtà e non a essa alternativa. Il primo aspetto dunque è mostrare quanto le emozioni che proviamo nel giocare ai videogame o nel comunicare su una chat siano reali, quanto ciò che facciamo nel virtuale abbia delle conseguenze sulla realtà e, nel caso di minacce e insulti sul web, conseguenze giudiziarie. La confusione è grande anche tra genitori e insegnanti perché non c’è stata nessuna formazione sui social quando sono usciti e gli stessi smartphone sono comparsi nel 2010, con tutte le opportunità e gli abusi che ne sono conseguiti. Constato su tutto il territorio nazionale quanto sia urgente colmare questo deficit di concettualizzazione.

Quali altri cause ravvisa?
Il secondo grande problema che spiega fenomeni come gli haters e il cyberbullismo è quello delle subculture digitali: noi abbiamo parecchi contenitori digitali, dagli streamers alle più sofisticate serie televisive su Netflix e altre piattaforme, che proliferano all’interno di un evidente processo culturale di normalizzazione della devianza. È quanto si è visto in La casa di carta o in Élite o altre serie tv dove la giustizia e la legalità rappresentano un disvalore, mentre l’intera produzione inneggia alla microcriminalità e alla trasgressione, così come avviene con alcuni dei più famosi streamers presenti sulla rete, youtuber che imprecano e bestemmiano mentre giocano alla PlayStation con centinaia di migliaia di followers tra gli adolescenti. Il cyberbullismo è figlio di una cultura in cui la violenza è percepita e accettata come normale: una subcultura che finisce per desensibilizzare i più giovani. Il problema è che queste subculture non sono antagoniste rispetto alla cultura dominante, ma ne sono esse stesse espressione: c’è un’intera industria digitale che produce sia cultura che subcultura in nome del neoliberismo estremo e del profitto a oltranza. Perciò, come abbiamo già visto negli anni scorsi, non c’è da illudersi che i legislatori pongano dei limiti alle piattaforme che diffondono contenuti inadatti a minori o fake news: genitori e insegnanti devono conoscere questi mondi per orientare figli e studenti.

Lei è stato tra i formatori del progetto Tik Tok in Sardegna e svolge corsi di educazione digitale in tutta Italia a partire dalla guida Pensa prima di condividere. Su quali aspetti fa leva nelle scuole?
Cerco il più possibile di alimentare lo spirito critico degli studenti su che cosa postano e condividono sui social, sui contenuti delle subculture digitali e sul fatto che non si tratta di stimoli neutri, ma che al contrario la ripetizione ossessiva dell’inneggiare alla violenza – o alla misoginia – ha un effetto sulla psiche. Insisto sull’induzione fallace che i videogame siano una realtà virtuale anziché riflettere sul fatto che i soldi che si spendono per abbellire il personaggio («shoppare le skin») sono reali, su come le nuove tecnologie inducano dipendenza e sull’esistenza di comportamenti digitali diffusi da streamers e youtuber che favoriscono la disinibizione del web. Si veda per esempio il cosiddetto smerding, una delle più odiose forme di cyberbullismo, che consiste nel mettere una ragazza alla gogna diffondendo su canali e gruppi di Telegram sue foto e video, talvolta intimi, insieme al suo account Instagram e al cellulare. In modo che chiunque, anche degli sconosciuti, possa denigrarla.

Quali reazioni suscita negli studenti?
La prima reazione è quella dell’incredulità: quando cito Masseo, Zano o Marza o i videogiochi più scaricati o i manga e anime, non riescono a credere che conosca realmente così a fondo il mondo nel quale sono immersi. Spesso mi fanno delle domande di verifica, e solo allora accettano di essere messi in discussione. Dopo un iniziale negazionismo, emergono le loro domande e obiezioni che talvolta sfociano in vere e proprie risse dialettiche. In generale vedo il grande bisogno di parlare di questi temi, perché è evidente che non hanno adulti con cui confrontarsi sulle esperienze digitali che fanno: è anche per questo che abbiamo una generazione di adolescenti mai stati così soli come oggi, e genitori che non sanno di che cosa parlare con i loro figli.

Il suo manuale Smart Family è una sorta di chiamata alle armi per i genitori di nativi digitali. Perché è importante iniziare dalla primissima infanzia?
Il web non è uno spazio pensato per i bambini. Eppure lo smartphone e i tablet sono utilizzati dai genitori per calmare o distrarre i bambini quando stanno a tavola, in ristorante o nei luoghi pubblici. Ecco perché occorre fare attenzione alla classificazione Pegi di eventuali videogiochi e comunque testarli per verificare la presenza di eventuali rischi e contenuti non adeguati, in ogni caso sarebbe meglio non superare i 30 minuti al giorno.

Che cosa consiglia ai genitori di bimbi più grandi?
Oggi fin dalla scuola primaria i bambini fanno esperienze digitali su piattaforme di videogioco o sui social che noi non abbiamo avuto, crescono e apprendono dalla rete con modalità a noi sconosciute. Per questo sono convinto che quello che i genitori possono e devono fare è digitalizzare i propri pensieri e comportamenti, e vedo che c’è una grande resistenza a colmare questo gap generazionale. I nostri genitori ci trasmettevano delle informazioni.

Oggi un bambino di 9 anni fa delle esperienze digitali su una piattaforma di videogioco o sulla chat connessa, dove chiunque può tentare di adescarlo, delle quali i genitori non hanno idea: ecco perché questi ragazzi sono così soli. Con chi possono parlarne?
Se né i genitori né gli insegnanti conoscono Instagram o Twitch o Telegram e come funzionano, noi poniamo loro delle questioni di senso morale, etico o giuridico che sono troppo distanti dal loro mondo. I genitori prima di fargli fare un’esperienza digitale devono farla loro, anche per avere degli argomenti di cui parlare con loro. Bisogna entrare nel mondo digitale e puntare su fatti concreti per farsi capire da loro.